Clima e abitudini alimentari

La Commissione EAT-Lancet ha pubblicato a gennaio 2019 un rapporto che pone in relazione le abitudini alimentari e i cambiamenti climatici (https://hubs.ly/H0gcxY90). Il messaggio è chiaro: mangiare meno carne e più vegetali fa bene alla salute e può salvare il pianeta. Non si tratta di cambiamenti da poco: secondo il rapporto si dovrebbe ridurre ad un terzo il consumo di carne (specialmente di carni rosse) e raddoppiare frutta e verdura; le proteine di origine vegetale dovrebbero compensare il minore apporto di proteine animali.

La commissione, composta da 37 scienziati ed esperti, propone una “dieta universale”, coerente con le esigenze della salute umana e del pianeta, da non intendersi come “menu” o “libro di ricette” ma come quantità appropriate delle diverse componenti dell’alimentazione; si tratta di una dieta che è compatibile con un ampio spettro di tradizioni e culture. Osservando questa dieta universale, si garantisce il rispetto di limiti ambientali da parte dei sistemi produttivi tali da limitare l’effetto dei cambiamenti climatici entro confini che la maggior parte degli scienziati considera realisticamente accettabili.

Ma come arrivare a questa “Great Food Transformation”? E soprattutto, come arrivarci nei tempi rapidissimi necessari per scongiurare gli effetti negativi del sistema attuale su clima e ambiente? E come arrivarci senza innescare conflitti epocali? Su questo, francamente, non sono ottimista; e cerco di spiegare perché.

Le misure vanno attuate in singoli Paesi, o magari in singole Regioni. Non esiste un’Autorità sovranazionale in grado di imporle. Non ci sono trattati internazionali legalmente vincolanti, come fu, caso quasi unico, il protocollo di Kyoto, seppure solo per una parte dei firmatari.

Né e prevedibile che meccanismi efficaci di governance multilaterale si rafforzino in futuro; anzi, è evidente che sistemi di governance globale stanno via via perdendo peso in conseguenza di un risorgente spirito nazionalistico in molte parti del mondo: USA, Brasile, Turchia, vari stati europei tra cui Italia, Polonia, Ungheria e, ovviamente, anche il Regno Unito.

Ma entriamo nei casi concreti. La riduzione drastica dei consumi di carne e di prodotti di origine animale. Immaginiamo un Paese, come l’Italia, in cui si voglia azzerare qualsiasi forma di allevamento intensivo, che i bovini e gli altri ruminanti siano ammessi solo se allevati su pascoli e con il foraggio derivato da prati stabili, visto che non sono in concorrenza con la produzione di cibo e che prati e pascoli possono fungere da “carbon sink” (depositi di carbonio). Nel nostro Paese tra un terzo e metà della PLV (Produzione Lorda Vendibile) del settore agricolo è legata alle produzioni animali.

Il settore zootecnico e quelli collegati (allevamenti, mangimi, macellazione, trasformazione, distribuzione) insorgerebbero. Ed è prevedibile la lista delle contromisure:

  • Allarme per i posti di lavoro a rischio.
  • Pericolo per le nostre esportazioni alimentari (in particolare i due prosciutti e i due formaggi che sono la bandiera del nostro Made in Italy).
  • Critiche ai fondamenti scientifici della “Great Food Transformation” instillando dubbi sulla competenza degli esperti, sui metodi impiegati, sulle fonti dei dati, su interessi reconditi.
  • Richiesta di avviare nuove (e possibilmente lunghe) ricerche per verificare le conclusioni.
  • Richiesta di consultazione preventiva di comitati di stakeholders prima dell’adozione di qualunque decisione operativa.
  • Finanziamento di campagne di controinformazione sui media e nei social network.
  • Invocazione della libertà individuale in tema di alimentazione.
  • Dimostrazioni di piazza, blocchi di strade, ecc. come avvenne durante il periodo delle “quote latte”.

Alla fine, quale gruppo politico si imbarcherebbe in una campagna di sostegno della “Great Food Transformation” così rischiosa? Chi vorrebbe che la collettività (con le tasse) si facesse carico di compensare allevatori e industriali per una parte almeno degli introiti perduti? Chi, in Italia (!) vorrebbe decidere come i cittadini debbano mangiare? La libertà individuale (anche quella di farsi del male con diete inadeguate) da noi è sacra quando si tratta di cibo.

I politici sono troppo condizionati da una visione di breve periodo (le prossime elezioni) per rischiare di imbarcarsi in campagne impopolari, anche se per la soluzione di ben più gravi problemi che certamente si presenteranno qualche anno dopo (declino della salute pubblica, collasso del clima).

Eppure la EAT-Lancet Commission pone la costruzione di una “volontà politica” alla base di qualsiasi iniziativa che voglia sperare di avere successo. Temo che, se questa sia la condizione necessaria, ovvero una volontà dei governi, aspetteremo molto a lungo.

Unica prospettiva pacifica che riesco ad intravvedere è una rivoluzione dal basso. Una presa di coscienza della generalità delle persone di questo mondo che cambiare comportamenti convenga a tutti noi, per il nostro benessere di oggi (salute) e di domani (clima). In particolare, credo che il movimento degli adolescenti coalizzati intorno a Greta Thunberg negli scioperi per il clima possa rappresentare la vera speranza, sempre che riesca a mantenere la direzione senza sbandamenti.

Dal basso può emergere una rivoluzione delle coscienze che porti ad una rivoluzione dei comportamenti dei consumatori. Se i vegani, vegetariani, pescatariani, flexitariani saranno considerati modelli da imitare anziché, come spesso accade oggi, da compatire o deridere o da stigmatizzare come posizioni di fanatici, allora sì, il settore delle produzioni animali si sgonfierebbe per carenza di domanda e non ci sarebbe bisogno di politici coraggiosi, in grado di resistere alle lobby e al rischio di impopolarità.

L’unica alternativa che vedo non è per nulla desiderabile né pacifica. La causa di un cambiamento radicale dei consumi potrebbe infatti essere un terzo conflitto globale; in realtà non sarebbe necessario che il Paese fosse impegnato direttamente in conflitti. Non sarebbero necessari bombardamenti, distruzioni, stragi di civili. Basterebbe un’interruzione o un forte rallentamento dei commerci internazionali ed anche in Paesi come l’Italia si porrebbe il problema se produrre mangimi per alimentare gli animali, in sostituzione delle attuali massicce importazioni, o utilizzare le terre per produrre alimenti per l’uomo.

Se venissero meno le importazioni di cereali dal Nord-America, di oleaginose dal Sud-America, o anche di grano dall’Ucraina, inevitabilmente lo sviluppo di un’agricoltura “autarchica” avvicinerebbe le diete degli italiani a quella universale proposta dalla EAT-Lancet Commission.

Se proprio dovessi scommettere, con un bel po’ di pessimismo, scommetterei sulla seconda ipotesi.

Stefano BISOFFI

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