Tra scienza e società c’è oggi una frattura paragonabile solo alla frattura tra società e politica. E’ una frattura ampia che non dà segni di volersi saldare. Prove evidenti ne sono la diffusa credulità nella “anti-scienza” (vedi l’opposizione ai vaccini), la diffidenza nei confronti di nuove tecnologie (vedi OGM) e il calo di prestigio che i ricercatori e i professori universitari sperimentano quotidianamente.
Di fronte a questo atteggiamento ci possono essere, da parte del mondo della ricerca, due risposte.
La prima è convincersi che il calo di fiducia nella scienza e negli scienziati sia solo frutto di una diffusa ignoranza e che l’unica reazione ragionevole da parte dei ricercatori sia di continuare a fare il loro mestiere al meglio delle proprie capacità confrontandosi con la comunità scientifica internazionale sulla base di standard che la stessa comunità ha fissato. Obiettivo è far progredire le conoscenza, sviluppare nuove teorie, scoprire nuovi metodi e pubblicare i risultati del proprio lavoro in lingua inglese su riviste scientifiche prestigiose.
Alcuni, i più sensibili alla necessità di condividere i risultati del proprio lavoro con la società, scriveranno anche articoli su riviste tecniche in italiano; magari qualcuno tenterà anche la strada della divulgazione con articoli sulle riviste che, come diceva Jeff Burley, “si leggono dal parrucchiere”.
Questi benemeriti non sono molti, perché la divulgazione “non paga” in termini di carriera. La carriera si fa con le pubblicazioni su riviste internazionali in lingua inglese, inaccessibili alla gente comune e alla maggior parte dei tecnici non tanto per la lingua (magari sì per il gergo utilizzato), quanto perché sono riviste che circolano esclusivamente nell’ambito delle istituzioni scientifiche: sono fatte per ricercatori che parlano ad altri ricercatori della medesima disciplina scientifica.
Qualcuno forse pensa che esista (o magari debba esistere, ma ci deve pensare qualcun altro) uno strato intermedio di persone con la competenza specialistica necessaria per leggere le riviste scientifiche e che ne traduca i messaggi in modo comprensibile a tecnici e a gente comune. Alcuni ce n’è; qualche giornalista scientifico bravo c’è; ma il numero è esiguo e non tutti sono bravi; alcuni sono proprio ignoranti e i messaggi che passano fanno inorridire.
Una volta mi capitò in mano una di queste riviste “che si leggono dal parrucchiere”; c’era un articolo sul cedro, in cui se ne decantavano le virtù salutistiche, gli usi in cucina, i collegamenti con la tradizione religiosa ebraica, ecc. Poi c’era un riquadro dal titolo “Approfondimenti botanici” e si diceva che esistono tre specie di cedro: il Cedrus deodara, il Cedrus libani e il Cedrus atlantica; ma queste sono tre conifere! Sono specie che hanno come unica attinenza col cedro agrume l’assonanza del nome generico (in realtà quello del cedro agrume è Citrus). Ecco, giornalisti così probabilmente scrivono articoli navigando qua e là su internet e fanno più danni che bene.
Ho detto che ci possono essere due risposte. Qual è l’altra? E’ una strada percorsa da pochi pionieri ma che deve diffondersi ad ogni costo.
Si tratta di coinvolgere la società, i cittadini, nel programmare e nel fare ricerca. Ci sono diversi termini per definire questo approccio: “citizens’ science”, “crowdsourcing”, “ricerca partecipata”. Esistono già vari esempi di successo dai quali trarre ispirazione. In astronomia, entomologia, ornitologia, già da tempo reti di “dilettanti” (nel senso più nobile e letterale del termine) contribuiscono a osservazioni, rilevazioni, censimenti, monitoraggi che non potrebbero avere la stessa capillarità se fossero condotti solo da una ristretta cerchia di addetti ai lavori. Chi volontariamente collabora a queste reti si sente parte di una comunità animata da uno scopo comune e la distanza tra il ricercatore dilettante e il ricercatore professionista ne è colmata.
Questo metodo di lavoro può essere esteso anche a settori diversi in cui tradizionalmente domina un approccio sperimentale classico. E sarebbe utile soprattutto in aree di ricerca in cui una forte concentrazione di interessi economici in pochi soggetti rischia di dettare l’agenda di ricerca anche alle istituzioni pubbliche e di far imboccare percorsi dannosi per la società.
Gli esempi che porterò sono tratti dall’agricoltura perché è il campo che conosco meglio ma sono certo che molte aree di ricerca farebbero bene ad adottare un approccio partecipativo.
Un caso esemplare è la ricerca genetica finalizzata al miglioramento e alla selezione di varietà di piante agrarie, comprese quelle delle specie più diffuse: mais, frumento, riso, soia, orzo e varie specie orticole. La genetica di queste specie è attualmente in mano ad un ristretto gruppo di operatori commerciali che puntano a varietà che possano avere un’ampia diffusione e che compensino un’eventuale scarsa adattabilità a diversi ambienti con una forte risposta a fertilizzanti, diserbanti, prodotti per la difesa da patogeni e parassiti, irrigazioni. Questo sta provocando una drammatica perdita di biodiversità, che è la migliore garanzia di adattamento delle colture a eventi imprevisti.
Con una rete diffusa di agricoltori interessati a mantenere e migliorare progressivamente varietà adatte ai territori in cui sono tradizionalmente coltivate si potrebbe salvaguardare una biodiversità diffusa. Certo, un’attività di questo genere non può essere solamente empirica. Ecco allora la necessità, da parte delle istituzioni di ricerca pubbliche, di dare sostegno e metodo a questo lavoro. Occorre creare strumenti per collegare la rete (Internet è ormai di uso universale e le applicazioni per smartphone alla portata di tutti), per definire standard minimi comuni che assicurino l’affidabilità dei dati, per elaborare i dati e condividerli con tutta la rete.
Gli agricoltori potrebbero essi stessi, da soli o associati, produrre e vendere sementi, magari non “in purezza”, com’è nella prassi attuale, ma come “popolazioni” più adatte, possibilmente, ad una coltivazione meno dipendente da input esterni rispetto alle varietà dell’agricoltura convenzionale.
L’idea di abbandonare la filiera sementiera basata sulla certificazione della purezza varietale fa inorridire molti “addetti ai lavori”. Si sostiene, non a torto, che le filiere “industriali” danno anche maggiori garanzie di carattere sanitario per i controlli (e i trattamenti) che le sementi subiscono. Ma perché allora non sviluppare ricerche e progetti di innovazione per consentire di applicare, su piccola scala, le stesse garanzie di qualità delle industrie, per consentire all’agricoltore di conservare e seminare e vendere l’anno successivo parte del proprio raccolto, magari una parte da lui stesso selezionata?
E’ vero che alcune specie ora dipendono da sementi ibride (vedi mais e varie orticole) per la quasi totalità della coltivazione. Ma anche per queste un ricorso a varietà stabili non è un’ipotesi da scartare. Si tratterebbe forse di varietà inadatte ad una diffusione su territori vasti, ma certamente adatte all’ambiente di selezione.
Un’altra area in cui sviluppare progetti di ricerca partecipata è quella dell’agroecologia, modello agricolo che intende sostituire gli apporti chimici per la difesa delle piante e la fertilizzazione con relazioni positive tra diverse specie, funghi e microorganismi in ambienti di coltivazione che siano caratterizzati anziché dalla massima uniformità dell’agricoltura convenzionale, da un’elevata diversità ad ogni scala.
Al momento l’agroecologia è ancor a per molti aspetti una scienza empirica ma come tutte le scienze empiriche, la sua forza sta nella numerosità delle osservazioni e quindi si gioverebbe enormemente di reti in cui pratiche diverse e risultati fossero sistematicamente raccolti e confrontati. Dalle osservazioni empiriche poi possono sorgere ipotesi scientifiche da verificare sperimentalmente, magari con la partecipazione della rete intera.
E’ evidente che sia il miglioramento genetico di tipo partecipato e la diffusione di pratiche agroecologiche si scontrano con gli interessi delle multinazionali sementiere e dei prodotti chimici per l’agricoltura, che in buona parte sono le stesse. Ma i vantaggi per la società in termini di tutela della biodiversità, dell’ambiente e della salute sono altrettanto evidenti. Ritengo quindi che sia doveroso per le istituzioni di ricerca pubbliche di non rincorrere le esigenze di ricerca delle grandi imprese (che, tra l’altro, hanno capacità proprie enormi) ma quelle della società che, con i proventi delle tasse pagate dai cittadini, ne finanzia l’attività.
Lavorare con i cittadini e per i cittadini è forse l’unica speranza che ha la scienza di legittimarsi nei confronti della società e recuperare quel capitale di credibilità che ha in buona parte dilapidato.
Stefano BISOFFI
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