Le rivolte degli agricoltori sbagliano il bersaglio

Non si è ancora sopita la protesta degli agricoltori di vari Paesi europei; i loro trattori sono ancora incolonnati per le nostre strade o fermi ad occupare piazze in diverse città. Sicuramente ci sono molte ragioni che giustificano la rabbia, a partire dalla remunerazione del lavoro:

    • il prezzo che i consumatori pagano al (super)mercato per i prodotti alimentari viene assorbito prevalentemente dall’industria di trasformazione e dalla distribuzione;
    • il costo dei fertilizzanti e dei prodotti fitosanitari è cresciuto significativamente, anche a seguito della guerra in Ucraina;
    • siccità e inondazioni hanno ridotto le produzioni in molte parti d’Italia e d’Europa con un impatto diretto sulle aziende agricole.

Quello che fatico a comprendere è il bersaglio: l’Europa. Per diverse ragioni:

    • La PAC (Politica Agricola Comune) non è imposta da un’Autorità sovranazionale; è il frutto di una concertazione tra Commissione (in cui ogni Stato Membro ha un proprio Commissario), il Consiglio (espressione dei Governi in carica) e il Parlamento (eletto dai cittadini). Chi critica “l’Europa”, soprattutto se è parte del Governo nazionale, dovrebbe chiedersi dov’era quando la PAC è stata decisa. Si erano distratti un attimo? Era stata decisa “col favore delle tenebre”?
    • La PAC assorbe circa il 40% delle risorse gestite dalla Commissione Europea; nessun altro settore economico è destinatario di tanti quattrini. Una buona parte di questi soldi arriva agli agricoltori come “pagamenti diretti”, ovvero contributi legati al possesso della terra, non alla sua destinazione colturale. Forse questi soldi sono ritenuti insufficienti; forse troppi soldi vanno a chi già ha redditi elevati (anche se ci sono dei tetti da non superare); forse dovrebbero essere meglio mirati. Ma ignorarli non si può.
    • Come giustificare queste erogazioni nei confronti dell’opinione pubblica? La Commissione, sempre d’accordo con Consiglio e Parlamento, ha nel corso del tempo ridotto la quota dei pagamenti diretti (c.d. “primo pilastro”) spostandoli al “secondo pilastro”, ovvero ad azioni che favoriscono il settore agricolo con mezzi diversi (assistenza tecnica, assicurazioni, organizzazione della produzione e commercializzazione) in un’ottica complessiva di “sviluppo agricolo”. Nel secondo pilastro sono stati inseriti anche incentivi per la preservazione degli ecosistemi, diminuire le emissioni di gas serra, favorire la biodiversità, nella consapevolezza che ad un contributo che grava su tutti i cittadini debba anche corrispondere un beneficio per la collettività.
    • Questo “secondo pilastro” per chiarezza, viene co-finanziato a livello nazionale o regionale e sono i rappresentanti dei territori (le Regioni in Italia) che definiscono le priorità insieme alla Commissione. Quest’ultima deve garantire che vengano rispettati i principi di fondo della PAC.
    • Molta, troppa burocrazia? Forse, ma questo è anche determinato dalla molteplicità di azioni finanziabili e dalla necessità, trattandosi di soldi pubblici, di garantire che siano spesi correttamente. Può darsi che la progressiva digitalizzazione e gli strumenti tecnologici (es. telerilevamento) miglioreranno la situazione.

I prezzi pagati agli agricoltori per i loro prodotti in azienda (farm gate) sono spesso vergognosamente bassi rispetto ai prezzi pagati dai consumatori finali. Un litro di latte viene pagato agli allevatori 45 centesimi; dal consumatore, al supermercato, almeno il triplo; spesso anche il quadruplo o il quintuplo. E’ difficile pensare che raccogliere, pastorizzare, confezionare e distribuire il latte costi tre, quattro, cinque volte quanto mantenere la mucca, nutrirla, mantenerla in salute, mungerla.

Analoghe situazioni si verificano per molti altri prodotti agricoli, ma ritengo che la soluzione non possa essere cercata in un cambio delle politiche agricole regionali, nazionali o europee, bensì in un cambio dei rapporti di forza nelle filiere. Finché i gruppi d’acquisto che riforniscono la grande distribuzione non troveranno dall’altra parte organizzazioni dei produttori capaci di contrattare sul libero mercato con altrettanta forza data dai numeri, non c’è speranza di cambiamento. Il tempo dei prezzi garantiti a livello europeo, che aveva portato all’eccesso di produzione e conseguente distruzione di prodotti in molti settori è finito.

E veniamo alla questione più critica delle proteste degli agricoltori, ma anche più scandalosa delle risposte date dalla politica alle contestazioni: le misure previste dalla PAC a favore della biodiversità e della mitigazione dei cambiamenti climatici.

Partiamo da una considerazione di carattere generale: gli agricoltori sono i più esposti, i più vulnerabili ai cambiamenti del clima e alla perdita di biodiversità degli ecosistemi agrari e forestali. La siccità, le inondazioni, le tempeste di vento colpiscono le colture molto più che le industrie, gli uffici, i trasporti, i servizi. Gli agricoltori dovrebbero essere quindi in prima linea con i movimenti ambientalisti, dovrebbero insultare chi parla di “ideologia” della tutela dell’ambiente. I rischi climatici e di perdita della biodiversità sono “scienza” non “ideologia”.

Gli agricoltori dovrebbero anche essere consapevoli del fatto che i sistemi alimentari (dal campo alla tavola) sono i responsabili di circa un quarto delle emissioni di gas serra in atmosfera e che quindi anche all’agricoltura si deve richiedere di “fare la propria parte”. Destinare il 4% della superficie alla conservazione della biodiversità, ridurre gradualmente il consumo di pesticidi e di fertilizzanti sono azioni delle quali gli stessi agricoltori beneficerebbero con una migliore funzionalità dei suoli, la salvaguardia degli insetti utili (api in testa ma anche parassiti di insetti dannosi alle colture) e, non da ultimo, una riduzione dei costi per prodotti chimici. Che questo sia possibile è dimostrato dall’esistenza e progressiva espansione dell’agricoltura biologica.

Ciò che gli agricoltori dovrebbero pretendere è, piuttosto, che anche gli altri settori della società siano chiamati a contribuire alla “transizione ecologica” in misura analoga, dai trasporti, al turismo, all’industria. E tutti noi, se vogliamo contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici e alla salvaguardia di biodiversità e ambiente, dovremmo adottare comportamenti individuali più sostenibili nella nostra vita quotidiana. Questo sarebbe una dimostrazione di solidarietà con gli agricoltori, molto più che lo smantellamento del “Green Deal” e delle strategie “Farm to Fork” e sulla Biodiversità come sembra si appresti a fare la Commissione.

Stefano BISOFFI

Articolo liberamente riproducibile purché si indichino l’Autore e il link da cui è tratto

Dopo il COVID-19

Foto da https://www.bbc.com/news/health-51214864

Scrivo l’11 aprile 2020, il giorno dopo l’annuncio del Presidente del Consiglio che la nostra “reclusione” per limitare la diffusione del COVID-19 durerà ancora fino al 3 maggio. Poi si vedrà.

E’ un periodo in cui non si fa altro che parlare del corona-virus, dei morti e dei contagiati. La paura del contagio sta ancora mettendo in ombra le preoccupazioni per quanto dovremo affrontare dopo l’emergenza. Per ora il principio (politically correct) che di fronte alle vite umane non si debba parlare di economia sta prevalendo, anche se gli imprenditori già reclamano a gran voce una ripresa delle attività produttive. E non si può nemmeno dar loro torto perché le risorse che saranno necessarie per curare le ferite e riprendere una vita “normale” non si creano se non in modo effimero con il debito e che ogni debito dovrà essere ripagato nel tempo o, in caso di default, spalmato su tutti, rendendoci tutti più poveri, soprattutto quelli che sono poveri già oggi.

Ma lasciamo per il momento da parte la questione del debito pubblico. Quali sono le prospettive dal punto di vista epidemiologico? Lo dico subito, non sono né un epidemiologo, né un infettivologo né tantomeno un virologo e pertanto potrei dire cose di scarso rigore scientifico. Queste, però, sono le mie considerazioni:

  1. L’epidemia non sarà sconfitta se non quando si realizzerà la famosa “immunità di gregge” attraverso un contagio che raggiunga almeno il 60-70% della popolazione o attraverso una vaccinazione di massa. Visto che pare che il vaccino non sarà disponibile prima di un anno o forse più, dovremo fare i conti con una persistente diffusione del COVID-19. Al momento in Italia sono stati diagnosticati 150.000 casi; supponiamo anche, forse esagerando o forse no, che per ogni diagnosticato ci siano tre asintomatici che, pur contagiati, non si sono ammalati. In totale sarebbero 600 mila persone, l’1% della popolazione. Di qui all’immunità di gregge, se prima non arriva il vaccino, la strada è ancora lunga. Le misure di confinamento sociale possono mantenere il numero dei casi entro limiti gestibili dalla Sanità pubblica ma non certo debellare la malattia. Quindi dovremo convivere con il COVID-19 ancora a lungo; se non altro fino a quando potremo essere vaccinati. E intanto si potrà solo modulare il grado di ritorno all’attività in modo tale da evitare che un eccessivo rilassamento delle restrizioni faccia ripartire l’epidemia a livelli insostenibili.

E dal punto di vista economico e sociale?

  1. Alcuni settori della nostra economia non si riprenderanno più, perlomeno per alcuni anni. Il turismo in primo luogo, visto che dipende dai viaggi, dalla convivenza in luoghi ristretti, dalla frequentazione di ambienti (ristoranti, musei, spiagge, …) ove il contatto umano è inevitabile o addirittura fa parte dell’esperienza desiderata. Alberghi, ristoranti, stabilimenti balneari, negozi di moda, musei, linee aeree stenteranno a sopravvivere.
  2. Il settore alimentare, apparentemente, non dovrebbe essere particolarmente colpito, visto che la gente continuerà ad aver bisogno di mangiare. La domanda, quindi, non dovrebbe scendere, anche se si rivolgerà a canali in parte diversi dal passato recente. Non si mangerà fuori, in ristoranti o mense aziendali; si mangerà in casa e quindi aumenteranno (come già si è visto) le vendite dei supermercati e le vendite on line. Chi riforniva i ristoranti, i bar, gli alberghi e le mense dovrà trovare canali alternativi di vendita. Anche i mercati rionali e la vendita diretta (farmers’ markets) saranno vittime del COVID-19. Qualcuno saprà adattarsi, e vari agricoltori già lo fanno rivolgendosi alla vendita on line o a canali di “Community Supported Agriculture” ma molti ci lasceranno le penne.
  3. Sul lato della produzione, invece, le difficoltà saranno notevoli, soprattutto per la difficoltà di reperire manodopera stagionale che, in Italia, è largamente straniera ed ora ha difficoltà di movimento (es. da Romania o Polonia) o di autorizzazione al lavoro; in particolare i molti immigrati africani nel Meridione d’Italia. A questo si aggiunge, come aggravante, la diffusione del lavoro nero. I produttori rischiano pertanto di lasciare sul campo parte del prodotto e questo si tradurrà per loro in un danno economico e per il consumatore in un aumento dei prezzi. Il rischio maggiore, in un’ottica di salute pubblica, è che l’aumento dei prezzi induca scelte alimentari poco corrette dal punto di vista nutrizionale ma meno care per il portafoglio; o addirittura, anche questo sta già avvenendo, metta le famiglie nell’impossibilità di spendere il necessario per la sopravvivenza.
  4. Il commercio internazionale, che in anni normali consente di sfruttare i “vantaggi competitivi” di diverse parti della terra per produrre derrate a poco prezzo per tutto il mondo, sta mostrando crepe. Alcuni Paesi hanno già eretto barriere all’esportazione (prima assicuriamo il cibo per noi poi vendiamo quel che avanza: es. Romania) o all’importazione (facciamo sì che i nostri produttori vendano i loro prodotti prima di quelli importati dall’estero: es Bulgaria). E’ evidente che ci saranno (e già ci sono) ripercussioni sui prezzi.
  5. Anche per questo molte voci, in molti Paesi, reclamano l’autosufficienza alimentare come obiettivo: produrre da sé il necessario senza dover dipendere da importazioni incerte. E’ un modo per proteggersi in caso di nuove emergenze ma è evidente che, ancorché l’autosufficienza fosse tecnicamente perseguibile, anche questa scelta sarebbe costosa.

E dal punto di vista politico e delle relazioni internazionali?

  1. Un altro rischio ben diverso dall’autosufficienza alimentare sta emergendo, ed è quello del nazionalismo o sovranismo; l’applicazione del principio “prima gli Italiani”, “America first” o, in altre parole, “ognuno per sé”. Purtroppo, è l’esatto contrario di ciò che serve per superare crisi globali come questa che stiamo vivendo e quella che vivremo dopo. Solo dalla collaborazione internazionale, dal dialogo multilaterale, dalla capacità di vedere oltre il proprio confine, dal mettere in comune le forze, la conoscenza, l’intelligenza nasceranno soluzioni efficaci. Purtroppo non è quello che stiamo osservando nel mondo: le organizzazioni internazionali sono indebolite dall’ostinazione di molti Paesi, grandi e piccoli, a voler fare da sé. Le Nazioni Unite, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’Unesco, l’Unicef, la FAO, soffrono per il fatto che non hanno denti per mordere e che si reggono sulla disponibilità dei Paesi membri di seguirne le raccomandazioni. Con il COVID-19 è emersa con drammatica chiarezza la scarsa volontà di quasi tutti i Paesi che pure fanno parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di seguirne le raccomandazioni. Ognuno per sé, a modo proprio.

Adesso siamo ancora in una fase di “stupore”, chiusi in casa ad aspettare non si sa bene quale futuro. Ma tra un po’ la crisi colpirà con disoccupazione, fallimenti, povertà diffusa. Scopriremo (stiamo già scoprendo) che avremmo bisogno di più medici e infermieri e letti d’ospedale ma non avremo i soldi per pagarli. Anche nell’ipotesi che restasse l’attuale struttura di imposizione fiscale (nonostante si promettano alleggerimenti) ci sarà una base imponibile minore e quindi meno soldi per pagare quei servizi pubblici che ora capiamo quanto siano necessari. E in più avremo un debito pubblico ancora maggiore di quello già enorme di prima del COVID-19.

Non voglio farla troppo lunga anche perché non sono né voglio sembrare un profeta, ma credo che sia ragionevole attendersi un periodo di recessione profonda, se non di depressione. Ciò che sarà determinante sarà il modo in cui cercare di uscirne. Se la parola d’ordine sarà tornare al più presto al punto di partenza, con tutti i problemi irrisolti, le diseguaglianze, i cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità, lo sfruttamento incontrollato delle risorse in nome della crescita economica misurata con il Prodotto Interno Lordo, allora avremo perso un’occasione.

Le crisi possono anche servire ad imboccare strade nuove, a sviluppare relazioni non predatorie con l’ambiente, a salvaguardare il clima dai cambiamenti indotti dal modo in cui sfruttiamo le risorse naturali, a perseguire stili di vita e abitudini che realizzino le nostre aspirazioni senza compromettere quelle altrui. Occorrono il coraggio e la determinazione di affrontare transizioni epocali verso quel “safe and just operating space” che coniughi giustizia sociale[1] e rispetto per l’ambiente[2] [3].

Se il mondo sarà più povero di oggi, e noi pure, la nostra intelligenza si vedrà nelle scelte che faremo: se saremo “homo homini lupus” l’avvenire sarà ben drammatico e il futuro vedrà un avvitamento su guerre, disastri ambientali, carestie, migrazioni epocali, nuove epidemie.

Se prevarrà la convinzione che “siamo tutti sulla stessa barca” e che sia più opportuno trovare un modo equo di convivere, allora forse in questo mondo ci sarà spazio per tutti per vivere una vita sana, dignitosa e forse anche felice.

Stefano BISOFFI

Articolo liberamente riproducibile purché si indichino l’Autore e il link da cui è tratto

 

 

[1] Raworth K. 2017. Doughnut Economics. Seven ways to Think Like a 21st -Century Economist. Random House Business Books. London

[2] Rockström J et al. 2009. A safe operating space for humanity. Nature 461, 472–475. doi: 10.1038/461472a; pmid: 19779433

[3] Steffen W et al. 2015. Planetary boundaries: Guiding human development on a changing planet. Science 347, 1259855 (2015). DOI: 10.1126/science.1259855 Downloaded from http://science.sciencemag.org/ on March 14, 2017

Sviluppo sostenibile per tutti. Una chimera?

Premetto subito che quando parlo di “sviluppo” non intendo “crescita”. La crescita, soprattutto se misurata in termini economici, è strettamente correlata con lo sfruttamento delle risorse naturali e ambientali che è già insostenibile oggi e rischia di divenirlo ancor di più nei prossimi anni se proseguiranno i trend demografici ed economici attuali.

A livello mondiale si stanno consumando annualmente “1,7 pianeti” all’anno, ossia il 70% in più di quanto la terra potrebbe offrire senza depauperarsi. Globalmente stiamo vivendo al di sopra delle nostre possibilità. Stiamo erodendo il capitale invece che accontentarci degli interessi.

Stiamo oltrepassando quelli che Rockström (2009)[1] definì “planetary boundaries” (confini del pianeta). Ma allo stesso tempo non siamo in grado di garantire a tutti un livello di vita dignitoso: Kate Raworth (2017)[2] ha descritto come una ciambella (doughnut) uno spazio in cui siano soddisfatti vari indici di qualità della vita ma senza che ciò comporti un consumo di risorse oltre i confini sostenibili. Molti degli indici di qualità della vita si ritrovano nei “sustainable development goals” (obiettivi di sviluppo sostenibile) delle Nazioni Unite: cibo e acqua a sufficienza, accesso all’istruzione, parità di diritti per le donne, diritto alla salute, giustizia, lavoro, equità sociale, ecc.

Il problema è che anche buona parte di questi indici di sviluppo (non solo la crescita economica) sono correlati positivamente con il consumo di risorse, come ha messo in luce O’Neill (2018)[3] e quindi colmare i gap a livello sociale comporterebbe un aggravamento della situazione a livello climatico/ambientale.

Hickel (2019)[4] ha tentato un’analisi quantitativa, per quanto ardua con dati del genere, ed è giunto alla conclusione che uno “spazio giusto e sicuro” (“safe and just space”), ovvero all’interno della ciambella di Kate Raworth, è possibile solo se i Paesi ricchi caleranno i propri consumi. Attenzione: non “se eviteranno di crescere” ma se attueranno una “decrescita” (torna in mente la “décroissance sereine” di Serge Latouche).

Noi dei Paesi ricchi non dovremo essere più efficienti; dovremo proprio calare i consumi: meno viaggi, meno energia, meno rinnovo del guardaroba, case più piccole, cibi di stagione. Più sobrietà.

Ma questo succederà? Io sono molto pessimista. Per farlo occorrerebbe la consapevolezza “globale” della “globalità” del problema e della necessità di soluzioni “globali”. Ma il mondo sta oggi andando proprio nella direzione opposta, con un risorgere di nazionalismi, di difesa dei confini, di salvaguardia degli interessi particolari. Questo modo di pensare è stato espresso a parole nella maniera più sfrontata da Trump nel suo discorso del 24 settembre alle Nazioni Unite[5] che vi invito ad ascoltare. Ma anche piccoli politici nostrani che teorizzano il “prima gli italiani” sono fatti della stessa pasta; o Bolsonaro che tratta l’Amazzonia come un bene di esclusiva pertinenza del Brasile.

Eppure la correlazione tra “benessere” o “qualità della vita” o “felicità” e Prodotto Interno Lordo (PIL), indice imperfetto di crescita economica, e ancora più inutile come misura di sviluppo sociale ma ancora feticcio di larga parte dei politici e degli economisti, è molto debole. La “sensazione di benessere” non deriva tanto da elementi oggettivi ma dal confronto con l’ambiente circostante, dalle diseguaglianze che si percepiscono, dall’abitudine all’ambiente che ci circonda. Se tutti abbiamo di più non diventiamo più felici. Ma se dovremo rinunciare a qualcosa allora nasceranno insoddisfazione, risentimento, frustrazione.

Per questo sono parecchio scettico sulle possibilità di noi “ricchi” della terra di rinunciare al nostro cosiddetto benessere, anche se magari, razionalmente, saremo persuasi del fatto di vivere al di sopra delle possibilità del pianeta e che i nostri stili di vita da un lato freneranno lo sviluppo dei “poveri” della terra e dall’altro spingeranno tutti, “ricchi” e “poveri” a sbattere contro il muro di un clima fuori controllo.

Non sarà la fine del mondo; ci sono già state epoche geologiche finite (es. l’era dei dinosauri) e altre cominciate. La vita continuerà e forse anche l’homo sapiens; ma non la civiltà come noi la conosciamo.

Stefano BISOFFI

Articolo liberamente riproducibile purché si indichino l’Autore e il link da cui è tratto.

[1] Rockström J et al. 2009. A safe operating space for humanity. Nature 461, 472–475.

[2] Raworth K. 2017. Doughnut Economics. Seven ways to Think Like a 21st -Century Economist. Random House Business Books. London.

[3] O’Neill DW et al. 2018. A good life for all within planetary boundaries. Nature Sustainability, 88, 1, 88–95.

[4] Hickel J. 2019. Is it possible to achieve a good life for all within planetary boundaries? Third World Quarterly, 40, 1, 18-35.

[5] “The free world must embrace its national foundations. It must not attempt to erase them or replace them. The future does not belong to globalists, the future belongs to patriots.” https://www.reuters.com/article/us-un-assembly-trump-globalism/trump-calls-on-nations-to-reject-globalism-embrace-nationalism-idUSKBN1W91XP.

Tipping point

Tipping point potrebbe essere tradotto (dall’inglese) come “punto di non ritorno”. Nel caso dei cambiamenti climatici esso significa una soglia di temperatura oltre la quale il riscaldamento continuerebbe a valanga, in modo irreversibile, senza alcuna possibilità per l’umanità di fermarlo o di invertire la rotta.

Nessuno sa di preciso quale sia questa soglia; gli obiettivi che l’accordo di Parigi del 2015 si prefiggeva erano dettati più da buon senso e da buone intenzioni che da dati scientifici certi. L’accordo prevedeva che ogni Paese mettesse in atto tutte le misure necessarie per contenere il riscaldamento globale entro i 2°C rispetto al periodo preindustriale, possibilmente entro 1,5°C. Ma qual è la ragione di questi valori? In parte pragmatismo: siamo già a +1°C, con un trend in aumento; dire che ormai non c’è più nulla da fare significa lavare le coscienze: se ogni sacrificio per salvare il clima è inutile, che senso ha impegnarsi? Quindi: 2°C, meglio se 1,5°C. Così si dà il senso di un certo margine di manovra, seppure stretto, anzi, secondo i più recenti rapporti dei ricercatori, strettissimo.

Un problema sottovalutato nel dibattito generale sul clima è che i cambiamenti indotti da un aumento della temperatura non agiscano in modo indipendente ed additivo ma rinforzandosi a vicenda. Steffen et al. (2018)[1] espongono molto chiaramente il rischio che si inneschino una serie di feedback positivi che facciano raggiungere più rapidamente di quanto si pensi un punto di non ritorno, nonostante interventi (ahimè tardivi) di ridurre le emissioni di gas ad effetto serra.

Un paio di esempi:

  1. I ghiacci già si sciolgono per effetto della temperatura attuale: una superficie bianca, che riflette la luce del sole viene rimpiazzata da una superficie scura (terra o oceani) che si scalda di più: più ghiaccio si scioglie per effetto del calore più il riscaldamento accelera.
  2. Nelle zone artiche (Russia, Canada) il riscaldamento porta allo scioglimento del permafrost, il terreno che è permanentemente ghiacciato al disotto di uno strato sottile che si sgela d’estate. I terreni a permafrost sono estremamente ricchi di sostanza organica che, sciogliendosi, si ossida emettendo CO2 o si decompone anaerobicamente emettendo metano (CH4), entrambi gas ad effetto serra; il secondo quasi trenta volte più potente del primo. Più aumenta la temperatura, più si scioglie il permafrost, più aumentano le emissioni di gas ad effetto serra che fanno ulteriormente crescere la temperatura.
  3. Nel mare è disciolta, sotto forma di acido carbonico, molta CO2 che altrimenti sarebbe in atmosfera. Ma l’equilibrio chimico è influenzato dalla temperatura: più questa si alza e più CO2 passa dall’acqua all’atmosfera contribuendo ulteriormente all’effetto serra.

Già lo scorso anno l’IPCC aveva pubblicato un rapporto[2] sui livelli di emissioni nette che consentirebbero di restare entro +1,5°C: azzeramento entro il 2055. Obiettivo possibile? Forse sì; concretamente attuabile nell’attuale frammentazione del panorama internazionale, in cui ogni Paese sembra voler andare per la sua strada e addirittura gli Stati Uniti rinnegano l’accordo di Parigi? Difficile. Qualche segnale incoraggiante viene dalle dichiarazioni del nuovo Presidente della Commissione Europea (emissioni nette pari a zero entro il 2050) e da analoghi o ancor più stringenti impegni assunti da Paesi quali il Regno Unito e la Germania, ma sono poche e probabilità che si raggiunga un’unità d’intenti e d’azione a livello mondiale, anche perché a dover compiere i sacrifici maggiori sono i Paesi ricchi.

Il primo passo dovrebbe essere eliminare ogni incentivo economico o fiscale a settori o attività economiche che aggravano i cambiamenti climatici; ma già in Italia si è visto che anche solo ventilare una riduzione dei benefici fiscali per l’autotrasporto (restituzione delle accise sul gasolio) o per l’agricoltura (gasolio a prezzo agevolato) suscita immediate reazioni difensive delle categorie colpite, tali da spaventare qualsiasi politico, anche se ben intenzionato.

Stefano BISOFFI

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[1] https://www.pnas.org/content/115/33/8252

[2] https://report.ipcc.ch/sr15/pdf/sr15_spm_final.pdf

Ventotto secoli di civiltà?

753 a.C. è la data della fondazione di Roma, secondo la tradizione. Quasi ventotto secoli di civiltà. Civiltà? Cos’è la civiltà? I monumenti? Le opere letterarie degli antichi? I musei? Se fosse così Roma sarebbe indubbiamente la culla della civiltà. Ma civiltà deriva da cives (cittadino), civitas (cittadinanza), ovvero il saper vivere insieme, osservando regole di convivenza (appunto!) “civile”.

Civiltà è rispetto dei beni pubblici, degli spazi comuni e dei diritti di tutti i cittadini (cives, come dicevamo) di goderne. Cos’è se non saper condividere, tutelare, valorizzare ciò che è di tutti, per l’uso di tutti?

Allora guardate bene la foto in testa a questo scritto. Sono biciclette che il Comune di Roma ha messo a disposizione di tutti i cittadini perché ne possano usare per muoversi in città, decongestionando il traffico, facendo un po’ di esercizio fisico, gustandosi la vista della città come non si riesce a fare movendosi in auto.

Guardate come sono ridotte. Queste foto le ho scattate in poche settimane senza andare a perlustrare sobborghi e borgate ma semplicemente riprendendo col telefonino ciò in cui mi imbattevo. Perché a Roma succede questo? A cosa sono serviti ventotto secoli di civiltà?

Pochi anni fa fui a Brisbane, in Australia, per lavoro. Anche lì c’era il bike sharing, con rastrelliere di biciclette come quelle di Roma a disposizione del pubblico; tutte in ordine, ovviamente. Ma quello che mi sorprese di più (e che mi amareggiò per il confronto) è che nel cestino del manubrio ogni bicicletta aveva un casco. Il casco era appoggiato nel cestino, non legato con catene e lucchetti! E a nessuno veniva in mente di portarselo via.

Guardate le bici di Roma. Tutte senza sella (facile da levare), alcune senza ruote (già occorre una chiave inglese), due addirittura con il cerchione rotto o piegato. Perché?

Io non ho la minima idea di chi sia la responsabilità? Balordi che credono di divertirsi così? Non so. Idioti sicuramente. Non ho nessuna intenzione di addossare colpe all’Amministrazione comunale, che anzi è da apprezzare per aver provato (come altre prima di questa) ad offrire ai romani un’opportunità di muoversi per Roma in maniera intelligente.

Resta il rammarico di vedere che questo scempio possa succedere in una città che potrebbe essere un gioiello, ma che non è.

Stefano BISOFFI

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Sopravviveremo alla complessità? (terza parte)

Nelle prime due parti di questa breve serie dedicata alla complessità ho cercato di riflettere su due aspetti: come orientarsi in sistemi complessi (https://www.bisoffi.it/2018/11/21/sopravviveremo-alla-complessita-prima-parte/) e come far sì che la complessità generi stabilità invece che caos (https://www.bisoffi.it/2018/12/24/sopravviveremo-alla-complessita-seconda-parte/).

In questa terza parte voglio formulare alcune proposte su come prepararci culturalmente a capire realtà complesse e navigarvi senza perdere l’orientamento. Non sono né uno psicologo né un filosofo e pertanto prendete queste considerazioni come ragionamenti ispirati da buon senso (spero).

La prima idea è che l’istruzione dovrebbe preparare meglio di come faccia ora a comprendere i contesti. Mi spiego. Adesso succede (esagero un po’) che uno studente studi in parallelo gli autori greci classici, la storia medievale, la filosofia dell’illuminismo, l’arte del rinascimento e la letteratura del periodo crepuscolare. Ogni settore è affrontato come se fosse un contenitore chiuso, come se tra letteratura, arte, filosofia, storia, musica di un determinato periodo non ci fossero relazioni strettissime che, se emergessero, farebbero comprendere i diversi contesti storici e culturali in maniera assai più efficace che con un approccio per pezzi discronici.

Ho fatto un esempio tratto dalle discipline umanistiche, ma anche tra materie scientifiche ci sono legami che spesso si comprendono troppo tardi e solo per chi svolge studi avanzati di matematica, statistica, fisica, astronomia, chimica, biologia. Come si può “capire” la fisica senza una buona base matematica?

Capisco che i programmi scolastici siano difficili da confezionare ma uno sforzo per raccordare le materie aiuterebbe a sviluppare gli strumenti mentali e culturali per scoprire le interrelazioni tra elementi di sistemi complessi anche al di fuori dell’ambito scolastico.

Un’altra proposta, che per la verità sta trovando spazio nella scuola grazie soprattutto a insegnanti intelligenti, è di affrontare problemi e realizzare progetti in modo non solo interdisciplinare ma anche transdisciplinare. Un progetto di trasformazione di un’azienda agricola (esempio molto parziale e specifico) non è mai solo tecnico o biologico ma anche economico, sociale, di marketing.

Ricordo un viaggio di studio che feci trent’anni fa nella provincia cinese dello Shandong, in una Cina rurale molto, molto diversa da quella di oggi; nelle campagne coltivavano pioppi in piantagioni fitte per produrre pali che servivano a sostenere i tetti delle case dei villaggi; ebbene, un ricercatore del nord-Europa disse ai colleghi cinesi che avrebbero dovuto piantare i pioppi a distanza di nove metri l’uno dall’altro perché così il volume di legno prodotto sarebbe stato massimizzato; evidentemente aveva in mente la destinazione industriale del legno nel suo Paese e non aveva capito che nello spazio necessario per coltivare una pianta alle spaziature da lui consigliate, i contadini cinesi avrebbero ricavato in 3-4 anni oltre cinquanta pali. Senza contare che un contadino cinese aveva a disposizione, allora,  non più di due “mu” (1 mu = 1/15 di ettaro) e non avrebbe potuto campare piantando solo una quindicina di piante come suggeriva lo scienziato. A queste assurdità può portare una considerazione puramente tecnica non inserita nel contesto socio-economico reale.

Un terzo contributo potrebbe venire dall’abitudine al dialogo, anche questo da coltivare soprattutto in ambito scolastico ma anche lavorativo. Il dialogo è cosa ben diversa dalla discussione in cui si cerca di far prevalere il proprio punto di vista, la propria tesi, talora i propri pregiudizi. Il vero dialogo parte dalla convinzione che il proprio punto di vista non sia sempre e necessariamente l’unico ammissibile, che possano esistere ragioni che non siamo stati in grado di vedere da soli, che la verità possa stare anche altrove; il dialogo è una ricerca reciproca, una scoperta, un’esplorazione, un arricchimento della realtà.

Un altro suggerimento è imparare (ancora idealmente a scuola) ad utilizzare schemi grafici per illustrare le relazioni tra componenti dei sistemi, a sfruttare meglio l’intelligenza visiva. Provate a guardare la figura che accompagna questo articolo: illustra un generico sistema di controllo. A mio parere (ma sono particolarmente affezionato agli schemi grafici) si capisce al volo la logica che lo sottende.

Adesso provate a descriverlo a parole …

Stefano BISOFFI

Articolo liberamente riproducibile purché si indichino l’Autore e il link da cui è tratto.

Fermeremo la deriva climatica o è ormai una missione impossibile?

I Paesi che avevano partecipato alla conferenza sul clima di Parigi COP 21 del 2015 avevano concordato che, con iniziative definite in modo autonomo ciascuno, si dovesse contenere l’aumento di temperatura media mondiale rispetto all’epoca preindustriale entro i +2°C, possibilmente entro +1,5°C. Teniamo conto che già siamo arrivati a +1°C e si stanno sciogliendo i ghiacci ai poli (oltre a molti altri effetti negativi); e quindi, a +1,5°C o a +2°C, la situazione del clima sarà comunque inevitabilmente peggiore di quella attuale.

L’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) ha pubblicato a ottobre 2108 un rapporto sulle iniziative che l’umanità dovrebbe adottare per rimanere entro +1,5°C (https://www.ipcc.ch/site/assets/uploads/sites/2/2018/07/SR15_SPM_version_stand_alone_LR.pdf). Nel rapporto c’è il grafico riprodotto in testa all’articolo che rappresenta l’andamento che le emissioni di gas ad effetto serra (GHG) dovrebbe avere d’ora in poi per avere buone probabilità (non la certezza!) di raggiungere l’obiettivo.

Il grafico rappresenta i flussi, non gli stock. Ossia per ogni anno sono indicate le nuove emissioni di GHG che vanno ad aggiungersi a quelli già presenti in atmosfera. Come si vede, fino ad oggi, anno dopo anno, abbiamo immesso in atmosfera quantità sempre crescenti di GHG. La retta che precipita per arrivare a zero circa nel 2055 indica che da adesso in avanti, anno dopo anno, dovremmo ridurre drasticamente i flussi di GHG in atmosfera per azzerarli nel 2055.

Quale combinazione realistica di circostanze potrà far sì che l’obiettivo di emissioni zero nel 2055 si verifichi? La “Great Food Transformation” auspicata dalla EAT-Lancet Commission (https://hubs.ly/H0gcxY90) consentirebbe forse ai sistemi alimentari di apportare il loro rilevante contributo, ma gli ostacoli alla sua realizzazione sono enormi.

In ogni caso non basterebbe. Altri cambiamenti radicali sarebbero necessari in tempi rapidi.

Nei trasporti, ad esempio. I motori a combustione sono ancora dominanti; l’industria dell’auto è ancora considerata il termometro dell’economia; e comunque, anche se si optasse per l’elettrico, l’energia elettrica dovrebbe essere prodotta da qualche parte; e nella produzione di energia elettrica potrà aumentare la quota di rinnovabili (solare ed eolico in particolare) ma non da un anno all’altro; si potrà ridurre il carbone ma, per il momento, non si potrà fare a meno di petrolio e gas. Ma è soprattutto il continuo crescere dei volumi dei trasporti a vanificare ogni incremento di efficienza dei motori.

C’è inoltre un lag-time dato dalla vita utile dei mezzi di trasporto. Un aereo costruito oggi consumerà jet fuel (simile a kerosene) per trent’anni; un camion, gasolio per vent’anni. Si innesca quello che in inglese si definisce path dependency ovvero un condizionamento del futuro da scelte prese nel passato.

Il riscaldamento degli edifici è ancora basato largamente su gasolio, metano e GPL. Ogni cambiamento richiede tempo e investimenti.

Ci sono poi attività industriali (es. siderurgia, cementifici) nelle quali sono richieste grandi quantità di energia “puntuale” che al momento solo la combustione riesce a fornire.

Le transizioni necessarie sono costose non solo in termini economici, per gli investimenti che richiedono, ma anche in termini sociali e individuali di cambiamento di abitudini, stili di vita, distribuzione delle risorse tra Paesi e riduzione delle diseguaglianze. Come per la “Great Food Transformation” (v. articolo su “Clima e abitudini alimentari”, https://www.bisoffi.it/2019/03/03/clima-e-abitudini-alimentari/), quale governo democratico, dovendo dipendere da una maggioranza dei consensi e con frequenti elezioni, affronterebbe i rischi di una transizione drastica, inevitabilmente impopolare?

Vale oltretutto la “tragedia dei beni comuni” (tragedy of the commons), seppure al contrario. “Perché dovrei accollarmi un sacrificio per me oneroso se questo si traduce in un vantaggio infinitesimale per tutti? Chi me lo fa fare? O ci si mette tutti insieme o niente”. E siccome metterci tutti insieme è un’utopia, visto il risorgere di spiriti nazionalistici e il deteriorarsi dei sistemi multilaterali, non se ne farà nulla e si andrà a sbattere contro il muro.

Stefano BISOFFI

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Clima e abitudini alimentari

La Commissione EAT-Lancet ha pubblicato a gennaio 2019 un rapporto che pone in relazione le abitudini alimentari e i cambiamenti climatici (https://hubs.ly/H0gcxY90). Il messaggio è chiaro: mangiare meno carne e più vegetali fa bene alla salute e può salvare il pianeta. Non si tratta di cambiamenti da poco: secondo il rapporto si dovrebbe ridurre ad un terzo il consumo di carne (specialmente di carni rosse) e raddoppiare frutta e verdura; le proteine di origine vegetale dovrebbero compensare il minore apporto di proteine animali.

La commissione, composta da 37 scienziati ed esperti, propone una “dieta universale”, coerente con le esigenze della salute umana e del pianeta, da non intendersi come “menu” o “libro di ricette” ma come quantità appropriate delle diverse componenti dell’alimentazione; si tratta di una dieta che è compatibile con un ampio spettro di tradizioni e culture. Osservando questa dieta universale, si garantisce il rispetto di limiti ambientali da parte dei sistemi produttivi tali da limitare l’effetto dei cambiamenti climatici entro confini che la maggior parte degli scienziati considera realisticamente accettabili.

Ma come arrivare a questa “Great Food Transformation”? E soprattutto, come arrivarci nei tempi rapidissimi necessari per scongiurare gli effetti negativi del sistema attuale su clima e ambiente? E come arrivarci senza innescare conflitti epocali? Su questo, francamente, non sono ottimista; e cerco di spiegare perché.

Le misure vanno attuate in singoli Paesi, o magari in singole Regioni. Non esiste un’Autorità sovranazionale in grado di imporle. Non ci sono trattati internazionali legalmente vincolanti, come fu, caso quasi unico, il protocollo di Kyoto, seppure solo per una parte dei firmatari.

Né e prevedibile che meccanismi efficaci di governance multilaterale si rafforzino in futuro; anzi, è evidente che sistemi di governance globale stanno via via perdendo peso in conseguenza di un risorgente spirito nazionalistico in molte parti del mondo: USA, Brasile, Turchia, vari stati europei tra cui Italia, Polonia, Ungheria e, ovviamente, anche il Regno Unito.

Ma entriamo nei casi concreti. La riduzione drastica dei consumi di carne e di prodotti di origine animale. Immaginiamo un Paese, come l’Italia, in cui si voglia azzerare qualsiasi forma di allevamento intensivo, che i bovini e gli altri ruminanti siano ammessi solo se allevati su pascoli e con il foraggio derivato da prati stabili, visto che non sono in concorrenza con la produzione di cibo e che prati e pascoli possono fungere da “carbon sink” (depositi di carbonio). Nel nostro Paese tra un terzo e metà della PLV (Produzione Lorda Vendibile) del settore agricolo è legata alle produzioni animali.

Il settore zootecnico e quelli collegati (allevamenti, mangimi, macellazione, trasformazione, distribuzione) insorgerebbero. Ed è prevedibile la lista delle contromisure:

  • Allarme per i posti di lavoro a rischio.
  • Pericolo per le nostre esportazioni alimentari (in particolare i due prosciutti e i due formaggi che sono la bandiera del nostro Made in Italy).
  • Critiche ai fondamenti scientifici della “Great Food Transformation” instillando dubbi sulla competenza degli esperti, sui metodi impiegati, sulle fonti dei dati, su interessi reconditi.
  • Richiesta di avviare nuove (e possibilmente lunghe) ricerche per verificare le conclusioni.
  • Richiesta di consultazione preventiva di comitati di stakeholders prima dell’adozione di qualunque decisione operativa.
  • Finanziamento di campagne di controinformazione sui media e nei social network.
  • Invocazione della libertà individuale in tema di alimentazione.
  • Dimostrazioni di piazza, blocchi di strade, ecc. come avvenne durante il periodo delle “quote latte”.

Alla fine, quale gruppo politico si imbarcherebbe in una campagna di sostegno della “Great Food Transformation” così rischiosa? Chi vorrebbe che la collettività (con le tasse) si facesse carico di compensare allevatori e industriali per una parte almeno degli introiti perduti? Chi, in Italia (!) vorrebbe decidere come i cittadini debbano mangiare? La libertà individuale (anche quella di farsi del male con diete inadeguate) da noi è sacra quando si tratta di cibo.

I politici sono troppo condizionati da una visione di breve periodo (le prossime elezioni) per rischiare di imbarcarsi in campagne impopolari, anche se per la soluzione di ben più gravi problemi che certamente si presenteranno qualche anno dopo (declino della salute pubblica, collasso del clima).

Eppure la EAT-Lancet Commission pone la costruzione di una “volontà politica” alla base di qualsiasi iniziativa che voglia sperare di avere successo. Temo che, se questa sia la condizione necessaria, ovvero una volontà dei governi, aspetteremo molto a lungo.

Unica prospettiva pacifica che riesco ad intravvedere è una rivoluzione dal basso. Una presa di coscienza della generalità delle persone di questo mondo che cambiare comportamenti convenga a tutti noi, per il nostro benessere di oggi (salute) e di domani (clima). In particolare, credo che il movimento degli adolescenti coalizzati intorno a Greta Thunberg negli scioperi per il clima possa rappresentare la vera speranza, sempre che riesca a mantenere la direzione senza sbandamenti.

Dal basso può emergere una rivoluzione delle coscienze che porti ad una rivoluzione dei comportamenti dei consumatori. Se i vegani, vegetariani, pescatariani, flexitariani saranno considerati modelli da imitare anziché, come spesso accade oggi, da compatire o deridere o da stigmatizzare come posizioni di fanatici, allora sì, il settore delle produzioni animali si sgonfierebbe per carenza di domanda e non ci sarebbe bisogno di politici coraggiosi, in grado di resistere alle lobby e al rischio di impopolarità.

L’unica alternativa che vedo non è per nulla desiderabile né pacifica. La causa di un cambiamento radicale dei consumi potrebbe infatti essere un terzo conflitto globale; in realtà non sarebbe necessario che il Paese fosse impegnato direttamente in conflitti. Non sarebbero necessari bombardamenti, distruzioni, stragi di civili. Basterebbe un’interruzione o un forte rallentamento dei commerci internazionali ed anche in Paesi come l’Italia si porrebbe il problema se produrre mangimi per alimentare gli animali, in sostituzione delle attuali massicce importazioni, o utilizzare le terre per produrre alimenti per l’uomo.

Se venissero meno le importazioni di cereali dal Nord-America, di oleaginose dal Sud-America, o anche di grano dall’Ucraina, inevitabilmente lo sviluppo di un’agricoltura “autarchica” avvicinerebbe le diete degli italiani a quella universale proposta dalla EAT-Lancet Commission.

Se proprio dovessi scommettere, con un bel po’ di pessimismo, scommetterei sulla seconda ipotesi.

Stefano BISOFFI

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Migrazioni dall’Africa: vogliamo aprire gli occhi?

Poche decine di migranti su una nave tenuti all’àncora al largo di un porto italiano. Scene che si sono ripetute nel 2018 e che si riaffacciano già all’inizio di quest’anno. Una retorica “difesa dei confini” diventa la bandiera di chi probabilmente non ha né idee un po’ più serie da proporre agli italiani né una chiara percezione del fenomeno delle migrazioni.

Voglio porre tre questioni sul tavolo: a) la presunta differenza tra rifugiati ed emigranti economici; b) la nostra storia di emigrazione; c) l’assurda illusione di poter controllare i flussi dall’Africa.

  1. I rifugiati, riconosciuti come tali dalle convenzioni internazionali, sono coloro che fuggono da guerre o persecuzioni politiche, religiose o etniche che ne mettono a repentaglio la sopravvivenza. Migranti economici sono quelli che fuggono da Paesi in cui patiscono la fame, non hanno lavoro, non possono assicurare un futuro dignitoso ai figli; insomma, cercano un luogo dove avere una vita migliore. Ditemi voi perché questi ultimi debbano essere considerati dei furbi, degli usurpatori di diritti altrui, degli invasori, degli abusivi da respingere con ogni mezzo al posto da cui sono partiti. E’ o non è un’aspirazione legittima quella di cercare un futuro migliore? Che differenza c’è tra l’africano che cerca di venire in Europa magari con la prospettiva di fare il bracciante o l’operaio o il muratore o l’addetto alle pulizie e i nostri giovani brillanti ricercatori che cercano all’estero condizioni migliori di quelle che il nostro sclerotico sistema universitario e degli Istituti di ricerca offre loro? In quest’ultimo caso, addirittura, colpevolizziamo i nostri giovani, i “cervelli in fuga”, quasi avessero commesso un tradimento della patria. Chi lascia il luogo in cui è nato e cresciuto, la propria rete di relazioni umane per “cercar fortuna” altrove ha diritto a rispetto per le ragioni e ad ammirazione per il coraggio; tutti senza distinzioni.
  2. Un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori è quanto sta scritto sulle facciate del palazzo della Civiltà Italiana all’EUR, a Roma. Si calcola che negli anni dall’Unità d’Italia agli anni ’80 del secolo scorso siano emigrati quasi 19 milioni di italiani, in maggioranza verso le Americhe o verso altri Paesi europei; questo numero è all’incirca quattro volte il numero degli stranieri residenti in Italia (5 milioni) e quest’ultimo è di pochissimo superiore al numero degli italiani residenti all’estero (4,9 milioni). E tranne i pochi che sono fuggiti dalle persecuzioni fasciste, erano tutti “migranti economici” che “cercavano fortuna” in paesi lontani. Ma allora di cosa stiamo parlando? Ci facciamo prendere in giro de qualche politico dalla faccia truce? Temo proprio di sì.
  3. In Europa (il continente, non l’Unione Europea) ci sono poco meno di 750 milioni di abitanti (di cui 500 milioni nella UE); in Africa 1,2 miliardi. Ma facciamo un salto di qualche anno, fino al 2050, circa trent’anni da oggi. In Africa ci saranno 2,5 miliardi di abitanti, circa il doppio di oggi; in Europa saremo scesi a 715 milioni. Mettiamola in un altro modo: nei prossimi trent’anni, ci saranno tanti africani in più di ora quanti il doppio di tutti gli europei di oggi. E noi (qualcuno di noi) pensa che si possa frenare la voglia di tanta gente di condividere un po’ del nostro benessere fermando le barche della speranza nel Mediterraneo? A me sembra che per credere una cosa del genere ci si debba riempire il cervello di stoppa anziché di materia grigia. Cerchiamo, invece, di aiutare in modo serio lo sviluppo sociale ed economico dei Paesi africani invece di lasciare che le imprese del mondo cosiddetto civile li rapinino delle loro risorse, spesso alimentando governi corrotti con pratiche che, in nome della libertà di iniziativa economica, sfuggono ad ogni controllo di leggi dei paesi d’origine.

Le migrazioni ci sono sempre state e sempre ci saranno; la storia del mondo è una storia di migrazioni. L’Italia è stata nei secoli un luogo di passaggio di greci, fenici, galli, goti, longobardi, bizantini, arabi, franchi, normanni; e la sua ricchezza artistica e culturale dipende anche da questa mescolanza di culture e tradizioni. Chiudere i porti adesso è una barzelletta … che non fa ridere.

Stefano BISOFFI

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Sopravviveremo alla complessità? (seconda parte)

Nella prima parte (https://www.bisoffi.it/2018/11/21/sopravviveremo-alla-complessita-prima-parte/) avevo scritto che le principali questioni da affrontare nella gestione della complessità sono:

  1. Come facciamo a comprenderla e a dominarla? Come facciamo ad orientarci in reti che sembrano labirinti nei quali entriamo senza una mappa? Possiamo affidarci alla tecnologia; ad esempio all’intelligenza artificiale?
  2. Come facciamo a far sì che la complessità porti stabilità, come negli ecosistemi naturali, invece che instabilità e caos?
  3. Come ci attrezziamo “culturalmente” per migliorare la nostra capacità di capire e gestire sistemi complessi?

… e avevo tentato di dare una risposta alla prima domanda. In questa seconda parte provo ad affrontare la seconda.

Molti sistemi dinamici complessi, anche se scomponibili in parti dal comportamento prevedibile, diventano imprevedibili quando gli elementi sono combinati insieme. Si usa dire (facendo seguito a Edward Lorenz, 1972) che, per una serie di reazioni a catena di cui non saremmo in grado di prevedere sequenza e collegamenti delle varie fasi, “un battito d’ali di una farfalla in Brasile sia in grado di scatenare un uragano nel Texas”.

Scrisse Roland Kupers (per il World Economic Forum): “In un mondo profondamente interconnesso le tensioni e gli shock si propagano attraverso i sistemi in modi non prevedibili. Il cambiamento climatico è connesso alla guerra di Siria, che è connessa a crescenti timori riguardo alle immigrazioni, che hanno influito sulla Brexit”.

Secondo la teoria del caos, in un sistema dinamico complesso, in cui molti elementi interagiscono tra loro in modo non lineare, una variazione anche minima delle condizioni iniziali può produrre risultati radicalmente differenti e imprevedibili.

Un esempio chiarirà il concetto: guardate la figura in alto. A sinistra c’è un pendolo semplice; a partire da Galileo possiamo prevedere con esattezza in quale posizione si troverà il pendolo dopo un certo lasso di tempo. A destra c’è un pendolo composto; alla base del primo pendolo ne è appeso un secondo; se noi lo lasciamo cadere da un certo punto non siamo più in grado di prevedere dove l’estremità del secondo pendolo si troverà dopo pochissime oscillazioni.

Nella natura vivente, però, sembra accadere il contrario: in un ecosistema naturale possono convivere migliaia di specie animali, vegetali, fungine, batteriche in un equilibrio apparentemente stabile; la resistenza alle alterazioni di tale equilibrio sembra crescere al crescere del numero degli elementi nel sistema.

Cosa possiamo imparare dagli ecosistemi per difendere i sistemi sociali complessi dal caos dei sistemi dinamici complessi? Molte cose.

La prima è la vicarianza: in natura un posto vuoto viene occupato da un concorrente con esigenze simili. La seconda è la predominanza di “anelli di retroazione negativi” (negative feedback loops). La terza è l’esistenza di reti di relazione, non catene.

Per la vicarianza occorre che non ci siano soggetti dominanti ma molti potenzialmente intercambiabili. Piccolo è bello si diceva tempo fa. Ma in un ecosistema non è bello essere piccoli a livello individuale; è bello essere piccoli a livello collettivo. Chi è piccolo semplicemente può essere sostituito se muore o fallisce.

Gli anelli di retroazione negativi fanno sì che ad una deviazione corrisponda una correzione di segno opposto. Se una specie animale si moltiplica oltre misura non troverà cibo sufficiente e calerà di numero per mortalità o perché diminuisce il tasso di riproduzione o ancora perché i suoi predatori troveranno più prede e ne ridurranno il numero, salvo poi trovarsi nella medesima situazione di eccesso di numerosità rispetto alla disponibilità di cibo.

Le relazioni negli ecosistemi sono tipicamente a rete. Gli elementi sono nodi della rete, non anelli di una catena. Se un legame diretto tra due nodi si interrompe si può arrivare dall’uno all’altro attraverso un percorso alternativo.

Vero è che le reti di per sé possono divenire anche propagatori di shock, soprattutto se si tratta di reti di livello mondiale. In antichità una carestia poteva essere drammatica per la popolazione che ne era colpita. Ora il commercio può compensare attraverso la rete mondiale degli scambi ma la rete del commercio internazionale può anche amplificare invece che moderare i fattori di disturbo, come insegna la crisi dei prezzi delle principali derrate alimentari tra 2007 e 2008.

In tutti i casi, vicarianza, anelli di retroazione e reti, l’equilibrio è sempre dinamico, mai statico. Ad un nuovo equilibrio si giunge dopo aggiustamenti; non viene mantenuto indefinitamente uno stato costante.

Tradotto in termini sociali, ciò significa che l’equilibrio della società si mantiene attraverso una serie continua di successi e fallimenti, di “winners and losers”, nessuno dei quali tale da alterare gli equilibri fondamentali. Non occorrono sistemi per prevenire successi e fallimenti ma reti di protezione per ridurre gli effetti negativi di questi ultimi per chi ne è vittima.

Sistemi in grado di ritornare all’equilibrio dopo uno shock sono definiti “resilienti”. Dagli ecosistemi, tipicamente resilienti, dovremmo apprendere a realizzare sistemi caratterizzati da ridondanza, modularità, diversità, presenza di buffer, creazione di riserve.

Certo, ciò significa in certa misura sacrificare l’efficienza, quella che deriva dalla specializzazione, dalle economie di scala, dalle dimensioni delle imprese, dai monopoli. Ogni soggetto, umano, sociale o economico che sia, deve essere una “funzione sostituibile”.

Si è sentita l’espressione too big to fail a proposito delle banche, quando gli Stati, compreso quello italiano, sono dovuti intervenire nel salvataggio di alcune sull’orlo del fallimento per evitare che, con effetto domino, le crisi si propagassero e si amplificassero. Purtroppo stiamo assistendo ad ulteriori concentrazioni che renderanno sempre più rischioso il sistema bancario. In natura quasi mai il crollo di un elemento dell’ecosistema determina il collasso generale.

Ma non è solo dalle banche che proviene il rischio delle concentrazioni. Anche nell’industria è un fenomeno diffuso e preoccupante. Per rimanere nel campo dell’agricoltura e dell’alimentazione, la produzione di sementi, fertilizzanti, pesticidi, diserbanti, macchine, il commercio delle “commodities”, le trasformazioni alimentari, la grande distribuzione stanno progressivamente concentrandosi in poche imprese multinazionali in modo tale da condizionare fortemente il mercato e le scelte degli agricoltori ad un’estremità della catena e dei consumatori dall’altra. Too big to feed e definito questo fenomeno da IPES-Food (International Panel of Experts on Sustainable Food Systems: www.ipes-food.org) e non è una situazione che possa far ben sperare sulla futura resilienza dei sistemi agroalimentari.

Per carità, poi ci sono anche eventi imprevedibili, per definizione rari ma con conseguenze importanti, quelli che Nassim Nicholas Taleb definì “Black swans”, ma è assai probabile che sistemi resilienti siano in grado di reagire rapidamente e con efficacia anche a turbamenti imprevisti.

Come accennato sopra dovremmo apprendere dalla natura a realizzare sistemi caratterizzati da ridondanza, modularità, diversità, presenza di buffer, creazione di riserve. Dobbiamo puntare a sistemi “soddisfacenti” sotto molteplici punti di vista, non “ottimali” per uno solo. Quanto radicale sia questo principio è dimostrato dal fatto che nonostante la resilienza sia obiettivo dichiarato palesemente a tutti i livelli, ben poco venga fatto per tradurlo in realtà.

Stefano BISOFFI

Articolo liberamente riproducibile purché si indichino l’Autore e il link da cui è tratto