Foto da https://www.bbc.com/news/health-51214864
Scrivo l’11 aprile 2020, il giorno dopo l’annuncio del Presidente del Consiglio che la nostra “reclusione” per limitare la diffusione del COVID-19 durerà ancora fino al 3 maggio. Poi si vedrà.
E’ un periodo in cui non si fa altro che parlare del corona-virus, dei morti e dei contagiati. La paura del contagio sta ancora mettendo in ombra le preoccupazioni per quanto dovremo affrontare dopo l’emergenza. Per ora il principio (politically correct) che di fronte alle vite umane non si debba parlare di economia sta prevalendo, anche se gli imprenditori già reclamano a gran voce una ripresa delle attività produttive. E non si può nemmeno dar loro torto perché le risorse che saranno necessarie per curare le ferite e riprendere una vita “normale” non si creano se non in modo effimero con il debito e che ogni debito dovrà essere ripagato nel tempo o, in caso di default, spalmato su tutti, rendendoci tutti più poveri, soprattutto quelli che sono poveri già oggi.
Ma lasciamo per il momento da parte la questione del debito pubblico. Quali sono le prospettive dal punto di vista epidemiologico? Lo dico subito, non sono né un epidemiologo, né un infettivologo né tantomeno un virologo e pertanto potrei dire cose di scarso rigore scientifico. Queste, però, sono le mie considerazioni:
- L’epidemia non sarà sconfitta se non quando si realizzerà la famosa “immunità di gregge” attraverso un contagio che raggiunga almeno il 60-70% della popolazione o attraverso una vaccinazione di massa. Visto che pare che il vaccino non sarà disponibile prima di un anno o forse più, dovremo fare i conti con una persistente diffusione del COVID-19. Al momento in Italia sono stati diagnosticati 150.000 casi; supponiamo anche, forse esagerando o forse no, che per ogni diagnosticato ci siano tre asintomatici che, pur contagiati, non si sono ammalati. In totale sarebbero 600 mila persone, l’1% della popolazione. Di qui all’immunità di gregge, se prima non arriva il vaccino, la strada è ancora lunga. Le misure di confinamento sociale possono mantenere il numero dei casi entro limiti gestibili dalla Sanità pubblica ma non certo debellare la malattia. Quindi dovremo convivere con il COVID-19 ancora a lungo; se non altro fino a quando potremo essere vaccinati. E intanto si potrà solo modulare il grado di ritorno all’attività in modo tale da evitare che un eccessivo rilassamento delle restrizioni faccia ripartire l’epidemia a livelli insostenibili.
E dal punto di vista economico e sociale?
- Alcuni settori della nostra economia non si riprenderanno più, perlomeno per alcuni anni. Il turismo in primo luogo, visto che dipende dai viaggi, dalla convivenza in luoghi ristretti, dalla frequentazione di ambienti (ristoranti, musei, spiagge, …) ove il contatto umano è inevitabile o addirittura fa parte dell’esperienza desiderata. Alberghi, ristoranti, stabilimenti balneari, negozi di moda, musei, linee aeree stenteranno a sopravvivere.
- Il settore alimentare, apparentemente, non dovrebbe essere particolarmente colpito, visto che la gente continuerà ad aver bisogno di mangiare. La domanda, quindi, non dovrebbe scendere, anche se si rivolgerà a canali in parte diversi dal passato recente. Non si mangerà fuori, in ristoranti o mense aziendali; si mangerà in casa e quindi aumenteranno (come già si è visto) le vendite dei supermercati e le vendite on line. Chi riforniva i ristoranti, i bar, gli alberghi e le mense dovrà trovare canali alternativi di vendita. Anche i mercati rionali e la vendita diretta (farmers’ markets) saranno vittime del COVID-19. Qualcuno saprà adattarsi, e vari agricoltori già lo fanno rivolgendosi alla vendita on line o a canali di “Community Supported Agriculture” ma molti ci lasceranno le penne.
- Sul lato della produzione, invece, le difficoltà saranno notevoli, soprattutto per la difficoltà di reperire manodopera stagionale che, in Italia, è largamente straniera ed ora ha difficoltà di movimento (es. da Romania o Polonia) o di autorizzazione al lavoro; in particolare i molti immigrati africani nel Meridione d’Italia. A questo si aggiunge, come aggravante, la diffusione del lavoro nero. I produttori rischiano pertanto di lasciare sul campo parte del prodotto e questo si tradurrà per loro in un danno economico e per il consumatore in un aumento dei prezzi. Il rischio maggiore, in un’ottica di salute pubblica, è che l’aumento dei prezzi induca scelte alimentari poco corrette dal punto di vista nutrizionale ma meno care per il portafoglio; o addirittura, anche questo sta già avvenendo, metta le famiglie nell’impossibilità di spendere il necessario per la sopravvivenza.
- Il commercio internazionale, che in anni normali consente di sfruttare i “vantaggi competitivi” di diverse parti della terra per produrre derrate a poco prezzo per tutto il mondo, sta mostrando crepe. Alcuni Paesi hanno già eretto barriere all’esportazione (prima assicuriamo il cibo per noi poi vendiamo quel che avanza: es. Romania) o all’importazione (facciamo sì che i nostri produttori vendano i loro prodotti prima di quelli importati dall’estero: es Bulgaria). E’ evidente che ci saranno (e già ci sono) ripercussioni sui prezzi.
- Anche per questo molte voci, in molti Paesi, reclamano l’autosufficienza alimentare come obiettivo: produrre da sé il necessario senza dover dipendere da importazioni incerte. E’ un modo per proteggersi in caso di nuove emergenze ma è evidente che, ancorché l’autosufficienza fosse tecnicamente perseguibile, anche questa scelta sarebbe costosa.
E dal punto di vista politico e delle relazioni internazionali?
- Un altro rischio ben diverso dall’autosufficienza alimentare sta emergendo, ed è quello del nazionalismo o sovranismo; l’applicazione del principio “prima gli Italiani”, “America first” o, in altre parole, “ognuno per sé”. Purtroppo, è l’esatto contrario di ciò che serve per superare crisi globali come questa che stiamo vivendo e quella che vivremo dopo. Solo dalla collaborazione internazionale, dal dialogo multilaterale, dalla capacità di vedere oltre il proprio confine, dal mettere in comune le forze, la conoscenza, l’intelligenza nasceranno soluzioni efficaci. Purtroppo non è quello che stiamo osservando nel mondo: le organizzazioni internazionali sono indebolite dall’ostinazione di molti Paesi, grandi e piccoli, a voler fare da sé. Le Nazioni Unite, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’Unesco, l’Unicef, la FAO, soffrono per il fatto che non hanno denti per mordere e che si reggono sulla disponibilità dei Paesi membri di seguirne le raccomandazioni. Con il COVID-19 è emersa con drammatica chiarezza la scarsa volontà di quasi tutti i Paesi che pure fanno parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di seguirne le raccomandazioni. Ognuno per sé, a modo proprio.
Adesso siamo ancora in una fase di “stupore”, chiusi in casa ad aspettare non si sa bene quale futuro. Ma tra un po’ la crisi colpirà con disoccupazione, fallimenti, povertà diffusa. Scopriremo (stiamo già scoprendo) che avremmo bisogno di più medici e infermieri e letti d’ospedale ma non avremo i soldi per pagarli. Anche nell’ipotesi che restasse l’attuale struttura di imposizione fiscale (nonostante si promettano alleggerimenti) ci sarà una base imponibile minore e quindi meno soldi per pagare quei servizi pubblici che ora capiamo quanto siano necessari. E in più avremo un debito pubblico ancora maggiore di quello già enorme di prima del COVID-19.
Non voglio farla troppo lunga anche perché non sono né voglio sembrare un profeta, ma credo che sia ragionevole attendersi un periodo di recessione profonda, se non di depressione. Ciò che sarà determinante sarà il modo in cui cercare di uscirne. Se la parola d’ordine sarà tornare al più presto al punto di partenza, con tutti i problemi irrisolti, le diseguaglianze, i cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità, lo sfruttamento incontrollato delle risorse in nome della crescita economica misurata con il Prodotto Interno Lordo, allora avremo perso un’occasione.
Le crisi possono anche servire ad imboccare strade nuove, a sviluppare relazioni non predatorie con l’ambiente, a salvaguardare il clima dai cambiamenti indotti dal modo in cui sfruttiamo le risorse naturali, a perseguire stili di vita e abitudini che realizzino le nostre aspirazioni senza compromettere quelle altrui. Occorrono il coraggio e la determinazione di affrontare transizioni epocali verso quel “safe and just operating space” che coniughi giustizia sociale[1] e rispetto per l’ambiente[2] [3].
Se il mondo sarà più povero di oggi, e noi pure, la nostra intelligenza si vedrà nelle scelte che faremo: se saremo “homo homini lupus” l’avvenire sarà ben drammatico e il futuro vedrà un avvitamento su guerre, disastri ambientali, carestie, migrazioni epocali, nuove epidemie.
Se prevarrà la convinzione che “siamo tutti sulla stessa barca” e che sia più opportuno trovare un modo equo di convivere, allora forse in questo mondo ci sarà spazio per tutti per vivere una vita sana, dignitosa e forse anche felice.
Stefano BISOFFI
Articolo liberamente riproducibile purché si indichino l’Autore e il link da cui è tratto
[1] Raworth K. 2017. Doughnut Economics. Seven ways to Think Like a 21st -Century Economist. Random House Business Books. London
[2] Rockström J et al. 2009. A safe operating space for humanity. Nature 461, 472–475. doi: 10.1038/461472a; pmid: 19779433
[3] Steffen W et al. 2015. Planetary boundaries: Guiding human development on a changing planet. Science 347, 1259855 (2015). DOI: 10.1126/science.1259855 Downloaded from http://science.sciencemag.org/ on March 14, 2017