Le rivolte degli agricoltori sbagliano il bersaglio

Non si è ancora sopita la protesta degli agricoltori di vari Paesi europei; i loro trattori sono ancora incolonnati per le nostre strade o fermi ad occupare piazze in diverse città. Sicuramente ci sono molte ragioni che giustificano la rabbia, a partire dalla remunerazione del lavoro:

    • il prezzo che i consumatori pagano al (super)mercato per i prodotti alimentari viene assorbito prevalentemente dall’industria di trasformazione e dalla distribuzione;
    • il costo dei fertilizzanti e dei prodotti fitosanitari è cresciuto significativamente, anche a seguito della guerra in Ucraina;
    • siccità e inondazioni hanno ridotto le produzioni in molte parti d’Italia e d’Europa con un impatto diretto sulle aziende agricole.

Quello che fatico a comprendere è il bersaglio: l’Europa. Per diverse ragioni:

    • La PAC (Politica Agricola Comune) non è imposta da un’Autorità sovranazionale; è il frutto di una concertazione tra Commissione (in cui ogni Stato Membro ha un proprio Commissario), il Consiglio (espressione dei Governi in carica) e il Parlamento (eletto dai cittadini). Chi critica “l’Europa”, soprattutto se è parte del Governo nazionale, dovrebbe chiedersi dov’era quando la PAC è stata decisa. Si erano distratti un attimo? Era stata decisa “col favore delle tenebre”?
    • La PAC assorbe circa il 40% delle risorse gestite dalla Commissione Europea; nessun altro settore economico è destinatario di tanti quattrini. Una buona parte di questi soldi arriva agli agricoltori come “pagamenti diretti”, ovvero contributi legati al possesso della terra, non alla sua destinazione colturale. Forse questi soldi sono ritenuti insufficienti; forse troppi soldi vanno a chi già ha redditi elevati (anche se ci sono dei tetti da non superare); forse dovrebbero essere meglio mirati. Ma ignorarli non si può.
    • Come giustificare queste erogazioni nei confronti dell’opinione pubblica? La Commissione, sempre d’accordo con Consiglio e Parlamento, ha nel corso del tempo ridotto la quota dei pagamenti diretti (c.d. “primo pilastro”) spostandoli al “secondo pilastro”, ovvero ad azioni che favoriscono il settore agricolo con mezzi diversi (assistenza tecnica, assicurazioni, organizzazione della produzione e commercializzazione) in un’ottica complessiva di “sviluppo agricolo”. Nel secondo pilastro sono stati inseriti anche incentivi per la preservazione degli ecosistemi, diminuire le emissioni di gas serra, favorire la biodiversità, nella consapevolezza che ad un contributo che grava su tutti i cittadini debba anche corrispondere un beneficio per la collettività.
    • Questo “secondo pilastro” per chiarezza, viene co-finanziato a livello nazionale o regionale e sono i rappresentanti dei territori (le Regioni in Italia) che definiscono le priorità insieme alla Commissione. Quest’ultima deve garantire che vengano rispettati i principi di fondo della PAC.
    • Molta, troppa burocrazia? Forse, ma questo è anche determinato dalla molteplicità di azioni finanziabili e dalla necessità, trattandosi di soldi pubblici, di garantire che siano spesi correttamente. Può darsi che la progressiva digitalizzazione e gli strumenti tecnologici (es. telerilevamento) miglioreranno la situazione.

I prezzi pagati agli agricoltori per i loro prodotti in azienda (farm gate) sono spesso vergognosamente bassi rispetto ai prezzi pagati dai consumatori finali. Un litro di latte viene pagato agli allevatori 45 centesimi; dal consumatore, al supermercato, almeno il triplo; spesso anche il quadruplo o il quintuplo. E’ difficile pensare che raccogliere, pastorizzare, confezionare e distribuire il latte costi tre, quattro, cinque volte quanto mantenere la mucca, nutrirla, mantenerla in salute, mungerla.

Analoghe situazioni si verificano per molti altri prodotti agricoli, ma ritengo che la soluzione non possa essere cercata in un cambio delle politiche agricole regionali, nazionali o europee, bensì in un cambio dei rapporti di forza nelle filiere. Finché i gruppi d’acquisto che riforniscono la grande distribuzione non troveranno dall’altra parte organizzazioni dei produttori capaci di contrattare sul libero mercato con altrettanta forza data dai numeri, non c’è speranza di cambiamento. Il tempo dei prezzi garantiti a livello europeo, che aveva portato all’eccesso di produzione e conseguente distruzione di prodotti in molti settori è finito.

E veniamo alla questione più critica delle proteste degli agricoltori, ma anche più scandalosa delle risposte date dalla politica alle contestazioni: le misure previste dalla PAC a favore della biodiversità e della mitigazione dei cambiamenti climatici.

Partiamo da una considerazione di carattere generale: gli agricoltori sono i più esposti, i più vulnerabili ai cambiamenti del clima e alla perdita di biodiversità degli ecosistemi agrari e forestali. La siccità, le inondazioni, le tempeste di vento colpiscono le colture molto più che le industrie, gli uffici, i trasporti, i servizi. Gli agricoltori dovrebbero essere quindi in prima linea con i movimenti ambientalisti, dovrebbero insultare chi parla di “ideologia” della tutela dell’ambiente. I rischi climatici e di perdita della biodiversità sono “scienza” non “ideologia”.

Gli agricoltori dovrebbero anche essere consapevoli del fatto che i sistemi alimentari (dal campo alla tavola) sono i responsabili di circa un quarto delle emissioni di gas serra in atmosfera e che quindi anche all’agricoltura si deve richiedere di “fare la propria parte”. Destinare il 4% della superficie alla conservazione della biodiversità, ridurre gradualmente il consumo di pesticidi e di fertilizzanti sono azioni delle quali gli stessi agricoltori beneficerebbero con una migliore funzionalità dei suoli, la salvaguardia degli insetti utili (api in testa ma anche parassiti di insetti dannosi alle colture) e, non da ultimo, una riduzione dei costi per prodotti chimici. Che questo sia possibile è dimostrato dall’esistenza e progressiva espansione dell’agricoltura biologica.

Ciò che gli agricoltori dovrebbero pretendere è, piuttosto, che anche gli altri settori della società siano chiamati a contribuire alla “transizione ecologica” in misura analoga, dai trasporti, al turismo, all’industria. E tutti noi, se vogliamo contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici e alla salvaguardia di biodiversità e ambiente, dovremmo adottare comportamenti individuali più sostenibili nella nostra vita quotidiana. Questo sarebbe una dimostrazione di solidarietà con gli agricoltori, molto più che lo smantellamento del “Green Deal” e delle strategie “Farm to Fork” e sulla Biodiversità come sembra si appresti a fare la Commissione.

Stefano BISOFFI

Articolo liberamente riproducibile purché si indichino l’Autore e il link da cui è tratto

Dopo il COVID-19

Foto da https://www.bbc.com/news/health-51214864

Scrivo l’11 aprile 2020, il giorno dopo l’annuncio del Presidente del Consiglio che la nostra “reclusione” per limitare la diffusione del COVID-19 durerà ancora fino al 3 maggio. Poi si vedrà.

E’ un periodo in cui non si fa altro che parlare del corona-virus, dei morti e dei contagiati. La paura del contagio sta ancora mettendo in ombra le preoccupazioni per quanto dovremo affrontare dopo l’emergenza. Per ora il principio (politically correct) che di fronte alle vite umane non si debba parlare di economia sta prevalendo, anche se gli imprenditori già reclamano a gran voce una ripresa delle attività produttive. E non si può nemmeno dar loro torto perché le risorse che saranno necessarie per curare le ferite e riprendere una vita “normale” non si creano se non in modo effimero con il debito e che ogni debito dovrà essere ripagato nel tempo o, in caso di default, spalmato su tutti, rendendoci tutti più poveri, soprattutto quelli che sono poveri già oggi.

Ma lasciamo per il momento da parte la questione del debito pubblico. Quali sono le prospettive dal punto di vista epidemiologico? Lo dico subito, non sono né un epidemiologo, né un infettivologo né tantomeno un virologo e pertanto potrei dire cose di scarso rigore scientifico. Queste, però, sono le mie considerazioni:

  1. L’epidemia non sarà sconfitta se non quando si realizzerà la famosa “immunità di gregge” attraverso un contagio che raggiunga almeno il 60-70% della popolazione o attraverso una vaccinazione di massa. Visto che pare che il vaccino non sarà disponibile prima di un anno o forse più, dovremo fare i conti con una persistente diffusione del COVID-19. Al momento in Italia sono stati diagnosticati 150.000 casi; supponiamo anche, forse esagerando o forse no, che per ogni diagnosticato ci siano tre asintomatici che, pur contagiati, non si sono ammalati. In totale sarebbero 600 mila persone, l’1% della popolazione. Di qui all’immunità di gregge, se prima non arriva il vaccino, la strada è ancora lunga. Le misure di confinamento sociale possono mantenere il numero dei casi entro limiti gestibili dalla Sanità pubblica ma non certo debellare la malattia. Quindi dovremo convivere con il COVID-19 ancora a lungo; se non altro fino a quando potremo essere vaccinati. E intanto si potrà solo modulare il grado di ritorno all’attività in modo tale da evitare che un eccessivo rilassamento delle restrizioni faccia ripartire l’epidemia a livelli insostenibili.

E dal punto di vista economico e sociale?

  1. Alcuni settori della nostra economia non si riprenderanno più, perlomeno per alcuni anni. Il turismo in primo luogo, visto che dipende dai viaggi, dalla convivenza in luoghi ristretti, dalla frequentazione di ambienti (ristoranti, musei, spiagge, …) ove il contatto umano è inevitabile o addirittura fa parte dell’esperienza desiderata. Alberghi, ristoranti, stabilimenti balneari, negozi di moda, musei, linee aeree stenteranno a sopravvivere.
  2. Il settore alimentare, apparentemente, non dovrebbe essere particolarmente colpito, visto che la gente continuerà ad aver bisogno di mangiare. La domanda, quindi, non dovrebbe scendere, anche se si rivolgerà a canali in parte diversi dal passato recente. Non si mangerà fuori, in ristoranti o mense aziendali; si mangerà in casa e quindi aumenteranno (come già si è visto) le vendite dei supermercati e le vendite on line. Chi riforniva i ristoranti, i bar, gli alberghi e le mense dovrà trovare canali alternativi di vendita. Anche i mercati rionali e la vendita diretta (farmers’ markets) saranno vittime del COVID-19. Qualcuno saprà adattarsi, e vari agricoltori già lo fanno rivolgendosi alla vendita on line o a canali di “Community Supported Agriculture” ma molti ci lasceranno le penne.
  3. Sul lato della produzione, invece, le difficoltà saranno notevoli, soprattutto per la difficoltà di reperire manodopera stagionale che, in Italia, è largamente straniera ed ora ha difficoltà di movimento (es. da Romania o Polonia) o di autorizzazione al lavoro; in particolare i molti immigrati africani nel Meridione d’Italia. A questo si aggiunge, come aggravante, la diffusione del lavoro nero. I produttori rischiano pertanto di lasciare sul campo parte del prodotto e questo si tradurrà per loro in un danno economico e per il consumatore in un aumento dei prezzi. Il rischio maggiore, in un’ottica di salute pubblica, è che l’aumento dei prezzi induca scelte alimentari poco corrette dal punto di vista nutrizionale ma meno care per il portafoglio; o addirittura, anche questo sta già avvenendo, metta le famiglie nell’impossibilità di spendere il necessario per la sopravvivenza.
  4. Il commercio internazionale, che in anni normali consente di sfruttare i “vantaggi competitivi” di diverse parti della terra per produrre derrate a poco prezzo per tutto il mondo, sta mostrando crepe. Alcuni Paesi hanno già eretto barriere all’esportazione (prima assicuriamo il cibo per noi poi vendiamo quel che avanza: es. Romania) o all’importazione (facciamo sì che i nostri produttori vendano i loro prodotti prima di quelli importati dall’estero: es Bulgaria). E’ evidente che ci saranno (e già ci sono) ripercussioni sui prezzi.
  5. Anche per questo molte voci, in molti Paesi, reclamano l’autosufficienza alimentare come obiettivo: produrre da sé il necessario senza dover dipendere da importazioni incerte. E’ un modo per proteggersi in caso di nuove emergenze ma è evidente che, ancorché l’autosufficienza fosse tecnicamente perseguibile, anche questa scelta sarebbe costosa.

E dal punto di vista politico e delle relazioni internazionali?

  1. Un altro rischio ben diverso dall’autosufficienza alimentare sta emergendo, ed è quello del nazionalismo o sovranismo; l’applicazione del principio “prima gli Italiani”, “America first” o, in altre parole, “ognuno per sé”. Purtroppo, è l’esatto contrario di ciò che serve per superare crisi globali come questa che stiamo vivendo e quella che vivremo dopo. Solo dalla collaborazione internazionale, dal dialogo multilaterale, dalla capacità di vedere oltre il proprio confine, dal mettere in comune le forze, la conoscenza, l’intelligenza nasceranno soluzioni efficaci. Purtroppo non è quello che stiamo osservando nel mondo: le organizzazioni internazionali sono indebolite dall’ostinazione di molti Paesi, grandi e piccoli, a voler fare da sé. Le Nazioni Unite, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’Unesco, l’Unicef, la FAO, soffrono per il fatto che non hanno denti per mordere e che si reggono sulla disponibilità dei Paesi membri di seguirne le raccomandazioni. Con il COVID-19 è emersa con drammatica chiarezza la scarsa volontà di quasi tutti i Paesi che pure fanno parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di seguirne le raccomandazioni. Ognuno per sé, a modo proprio.

Adesso siamo ancora in una fase di “stupore”, chiusi in casa ad aspettare non si sa bene quale futuro. Ma tra un po’ la crisi colpirà con disoccupazione, fallimenti, povertà diffusa. Scopriremo (stiamo già scoprendo) che avremmo bisogno di più medici e infermieri e letti d’ospedale ma non avremo i soldi per pagarli. Anche nell’ipotesi che restasse l’attuale struttura di imposizione fiscale (nonostante si promettano alleggerimenti) ci sarà una base imponibile minore e quindi meno soldi per pagare quei servizi pubblici che ora capiamo quanto siano necessari. E in più avremo un debito pubblico ancora maggiore di quello già enorme di prima del COVID-19.

Non voglio farla troppo lunga anche perché non sono né voglio sembrare un profeta, ma credo che sia ragionevole attendersi un periodo di recessione profonda, se non di depressione. Ciò che sarà determinante sarà il modo in cui cercare di uscirne. Se la parola d’ordine sarà tornare al più presto al punto di partenza, con tutti i problemi irrisolti, le diseguaglianze, i cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità, lo sfruttamento incontrollato delle risorse in nome della crescita economica misurata con il Prodotto Interno Lordo, allora avremo perso un’occasione.

Le crisi possono anche servire ad imboccare strade nuove, a sviluppare relazioni non predatorie con l’ambiente, a salvaguardare il clima dai cambiamenti indotti dal modo in cui sfruttiamo le risorse naturali, a perseguire stili di vita e abitudini che realizzino le nostre aspirazioni senza compromettere quelle altrui. Occorrono il coraggio e la determinazione di affrontare transizioni epocali verso quel “safe and just operating space” che coniughi giustizia sociale[1] e rispetto per l’ambiente[2] [3].

Se il mondo sarà più povero di oggi, e noi pure, la nostra intelligenza si vedrà nelle scelte che faremo: se saremo “homo homini lupus” l’avvenire sarà ben drammatico e il futuro vedrà un avvitamento su guerre, disastri ambientali, carestie, migrazioni epocali, nuove epidemie.

Se prevarrà la convinzione che “siamo tutti sulla stessa barca” e che sia più opportuno trovare un modo equo di convivere, allora forse in questo mondo ci sarà spazio per tutti per vivere una vita sana, dignitosa e forse anche felice.

Stefano BISOFFI

Articolo liberamente riproducibile purché si indichino l’Autore e il link da cui è tratto

 

 

[1] Raworth K. 2017. Doughnut Economics. Seven ways to Think Like a 21st -Century Economist. Random House Business Books. London

[2] Rockström J et al. 2009. A safe operating space for humanity. Nature 461, 472–475. doi: 10.1038/461472a; pmid: 19779433

[3] Steffen W et al. 2015. Planetary boundaries: Guiding human development on a changing planet. Science 347, 1259855 (2015). DOI: 10.1126/science.1259855 Downloaded from http://science.sciencemag.org/ on March 14, 2017

Tipping point

Tipping point potrebbe essere tradotto (dall’inglese) come “punto di non ritorno”. Nel caso dei cambiamenti climatici esso significa una soglia di temperatura oltre la quale il riscaldamento continuerebbe a valanga, in modo irreversibile, senza alcuna possibilità per l’umanità di fermarlo o di invertire la rotta.

Nessuno sa di preciso quale sia questa soglia; gli obiettivi che l’accordo di Parigi del 2015 si prefiggeva erano dettati più da buon senso e da buone intenzioni che da dati scientifici certi. L’accordo prevedeva che ogni Paese mettesse in atto tutte le misure necessarie per contenere il riscaldamento globale entro i 2°C rispetto al periodo preindustriale, possibilmente entro 1,5°C. Ma qual è la ragione di questi valori? In parte pragmatismo: siamo già a +1°C, con un trend in aumento; dire che ormai non c’è più nulla da fare significa lavare le coscienze: se ogni sacrificio per salvare il clima è inutile, che senso ha impegnarsi? Quindi: 2°C, meglio se 1,5°C. Così si dà il senso di un certo margine di manovra, seppure stretto, anzi, secondo i più recenti rapporti dei ricercatori, strettissimo.

Un problema sottovalutato nel dibattito generale sul clima è che i cambiamenti indotti da un aumento della temperatura non agiscano in modo indipendente ed additivo ma rinforzandosi a vicenda. Steffen et al. (2018)[1] espongono molto chiaramente il rischio che si inneschino una serie di feedback positivi che facciano raggiungere più rapidamente di quanto si pensi un punto di non ritorno, nonostante interventi (ahimè tardivi) di ridurre le emissioni di gas ad effetto serra.

Un paio di esempi:

  1. I ghiacci già si sciolgono per effetto della temperatura attuale: una superficie bianca, che riflette la luce del sole viene rimpiazzata da una superficie scura (terra o oceani) che si scalda di più: più ghiaccio si scioglie per effetto del calore più il riscaldamento accelera.
  2. Nelle zone artiche (Russia, Canada) il riscaldamento porta allo scioglimento del permafrost, il terreno che è permanentemente ghiacciato al disotto di uno strato sottile che si sgela d’estate. I terreni a permafrost sono estremamente ricchi di sostanza organica che, sciogliendosi, si ossida emettendo CO2 o si decompone anaerobicamente emettendo metano (CH4), entrambi gas ad effetto serra; il secondo quasi trenta volte più potente del primo. Più aumenta la temperatura, più si scioglie il permafrost, più aumentano le emissioni di gas ad effetto serra che fanno ulteriormente crescere la temperatura.
  3. Nel mare è disciolta, sotto forma di acido carbonico, molta CO2 che altrimenti sarebbe in atmosfera. Ma l’equilibrio chimico è influenzato dalla temperatura: più questa si alza e più CO2 passa dall’acqua all’atmosfera contribuendo ulteriormente all’effetto serra.

Già lo scorso anno l’IPCC aveva pubblicato un rapporto[2] sui livelli di emissioni nette che consentirebbero di restare entro +1,5°C: azzeramento entro il 2055. Obiettivo possibile? Forse sì; concretamente attuabile nell’attuale frammentazione del panorama internazionale, in cui ogni Paese sembra voler andare per la sua strada e addirittura gli Stati Uniti rinnegano l’accordo di Parigi? Difficile. Qualche segnale incoraggiante viene dalle dichiarazioni del nuovo Presidente della Commissione Europea (emissioni nette pari a zero entro il 2050) e da analoghi o ancor più stringenti impegni assunti da Paesi quali il Regno Unito e la Germania, ma sono poche e probabilità che si raggiunga un’unità d’intenti e d’azione a livello mondiale, anche perché a dover compiere i sacrifici maggiori sono i Paesi ricchi.

Il primo passo dovrebbe essere eliminare ogni incentivo economico o fiscale a settori o attività economiche che aggravano i cambiamenti climatici; ma già in Italia si è visto che anche solo ventilare una riduzione dei benefici fiscali per l’autotrasporto (restituzione delle accise sul gasolio) o per l’agricoltura (gasolio a prezzo agevolato) suscita immediate reazioni difensive delle categorie colpite, tali da spaventare qualsiasi politico, anche se ben intenzionato.

Stefano BISOFFI

Articolo liberamente riproducibile purché si indichino l’Autore e il link da cui è tratto

 

[1] https://www.pnas.org/content/115/33/8252

[2] https://report.ipcc.ch/sr15/pdf/sr15_spm_final.pdf

Fermeremo la deriva climatica o è ormai una missione impossibile?

I Paesi che avevano partecipato alla conferenza sul clima di Parigi COP 21 del 2015 avevano concordato che, con iniziative definite in modo autonomo ciascuno, si dovesse contenere l’aumento di temperatura media mondiale rispetto all’epoca preindustriale entro i +2°C, possibilmente entro +1,5°C. Teniamo conto che già siamo arrivati a +1°C e si stanno sciogliendo i ghiacci ai poli (oltre a molti altri effetti negativi); e quindi, a +1,5°C o a +2°C, la situazione del clima sarà comunque inevitabilmente peggiore di quella attuale.

L’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) ha pubblicato a ottobre 2108 un rapporto sulle iniziative che l’umanità dovrebbe adottare per rimanere entro +1,5°C (https://www.ipcc.ch/site/assets/uploads/sites/2/2018/07/SR15_SPM_version_stand_alone_LR.pdf). Nel rapporto c’è il grafico riprodotto in testa all’articolo che rappresenta l’andamento che le emissioni di gas ad effetto serra (GHG) dovrebbe avere d’ora in poi per avere buone probabilità (non la certezza!) di raggiungere l’obiettivo.

Il grafico rappresenta i flussi, non gli stock. Ossia per ogni anno sono indicate le nuove emissioni di GHG che vanno ad aggiungersi a quelli già presenti in atmosfera. Come si vede, fino ad oggi, anno dopo anno, abbiamo immesso in atmosfera quantità sempre crescenti di GHG. La retta che precipita per arrivare a zero circa nel 2055 indica che da adesso in avanti, anno dopo anno, dovremmo ridurre drasticamente i flussi di GHG in atmosfera per azzerarli nel 2055.

Quale combinazione realistica di circostanze potrà far sì che l’obiettivo di emissioni zero nel 2055 si verifichi? La “Great Food Transformation” auspicata dalla EAT-Lancet Commission (https://hubs.ly/H0gcxY90) consentirebbe forse ai sistemi alimentari di apportare il loro rilevante contributo, ma gli ostacoli alla sua realizzazione sono enormi.

In ogni caso non basterebbe. Altri cambiamenti radicali sarebbero necessari in tempi rapidi.

Nei trasporti, ad esempio. I motori a combustione sono ancora dominanti; l’industria dell’auto è ancora considerata il termometro dell’economia; e comunque, anche se si optasse per l’elettrico, l’energia elettrica dovrebbe essere prodotta da qualche parte; e nella produzione di energia elettrica potrà aumentare la quota di rinnovabili (solare ed eolico in particolare) ma non da un anno all’altro; si potrà ridurre il carbone ma, per il momento, non si potrà fare a meno di petrolio e gas. Ma è soprattutto il continuo crescere dei volumi dei trasporti a vanificare ogni incremento di efficienza dei motori.

C’è inoltre un lag-time dato dalla vita utile dei mezzi di trasporto. Un aereo costruito oggi consumerà jet fuel (simile a kerosene) per trent’anni; un camion, gasolio per vent’anni. Si innesca quello che in inglese si definisce path dependency ovvero un condizionamento del futuro da scelte prese nel passato.

Il riscaldamento degli edifici è ancora basato largamente su gasolio, metano e GPL. Ogni cambiamento richiede tempo e investimenti.

Ci sono poi attività industriali (es. siderurgia, cementifici) nelle quali sono richieste grandi quantità di energia “puntuale” che al momento solo la combustione riesce a fornire.

Le transizioni necessarie sono costose non solo in termini economici, per gli investimenti che richiedono, ma anche in termini sociali e individuali di cambiamento di abitudini, stili di vita, distribuzione delle risorse tra Paesi e riduzione delle diseguaglianze. Come per la “Great Food Transformation” (v. articolo su “Clima e abitudini alimentari”, https://www.bisoffi.it/2019/03/03/clima-e-abitudini-alimentari/), quale governo democratico, dovendo dipendere da una maggioranza dei consensi e con frequenti elezioni, affronterebbe i rischi di una transizione drastica, inevitabilmente impopolare?

Vale oltretutto la “tragedia dei beni comuni” (tragedy of the commons), seppure al contrario. “Perché dovrei accollarmi un sacrificio per me oneroso se questo si traduce in un vantaggio infinitesimale per tutti? Chi me lo fa fare? O ci si mette tutti insieme o niente”. E siccome metterci tutti insieme è un’utopia, visto il risorgere di spiriti nazionalistici e il deteriorarsi dei sistemi multilaterali, non se ne farà nulla e si andrà a sbattere contro il muro.

Stefano BISOFFI

Articolo liberamente riproducibile purché si indichino l’Autore e il link da cui è tratto.

Clima e abitudini alimentari

La Commissione EAT-Lancet ha pubblicato a gennaio 2019 un rapporto che pone in relazione le abitudini alimentari e i cambiamenti climatici (https://hubs.ly/H0gcxY90). Il messaggio è chiaro: mangiare meno carne e più vegetali fa bene alla salute e può salvare il pianeta. Non si tratta di cambiamenti da poco: secondo il rapporto si dovrebbe ridurre ad un terzo il consumo di carne (specialmente di carni rosse) e raddoppiare frutta e verdura; le proteine di origine vegetale dovrebbero compensare il minore apporto di proteine animali.

La commissione, composta da 37 scienziati ed esperti, propone una “dieta universale”, coerente con le esigenze della salute umana e del pianeta, da non intendersi come “menu” o “libro di ricette” ma come quantità appropriate delle diverse componenti dell’alimentazione; si tratta di una dieta che è compatibile con un ampio spettro di tradizioni e culture. Osservando questa dieta universale, si garantisce il rispetto di limiti ambientali da parte dei sistemi produttivi tali da limitare l’effetto dei cambiamenti climatici entro confini che la maggior parte degli scienziati considera realisticamente accettabili.

Ma come arrivare a questa “Great Food Transformation”? E soprattutto, come arrivarci nei tempi rapidissimi necessari per scongiurare gli effetti negativi del sistema attuale su clima e ambiente? E come arrivarci senza innescare conflitti epocali? Su questo, francamente, non sono ottimista; e cerco di spiegare perché.

Le misure vanno attuate in singoli Paesi, o magari in singole Regioni. Non esiste un’Autorità sovranazionale in grado di imporle. Non ci sono trattati internazionali legalmente vincolanti, come fu, caso quasi unico, il protocollo di Kyoto, seppure solo per una parte dei firmatari.

Né e prevedibile che meccanismi efficaci di governance multilaterale si rafforzino in futuro; anzi, è evidente che sistemi di governance globale stanno via via perdendo peso in conseguenza di un risorgente spirito nazionalistico in molte parti del mondo: USA, Brasile, Turchia, vari stati europei tra cui Italia, Polonia, Ungheria e, ovviamente, anche il Regno Unito.

Ma entriamo nei casi concreti. La riduzione drastica dei consumi di carne e di prodotti di origine animale. Immaginiamo un Paese, come l’Italia, in cui si voglia azzerare qualsiasi forma di allevamento intensivo, che i bovini e gli altri ruminanti siano ammessi solo se allevati su pascoli e con il foraggio derivato da prati stabili, visto che non sono in concorrenza con la produzione di cibo e che prati e pascoli possono fungere da “carbon sink” (depositi di carbonio). Nel nostro Paese tra un terzo e metà della PLV (Produzione Lorda Vendibile) del settore agricolo è legata alle produzioni animali.

Il settore zootecnico e quelli collegati (allevamenti, mangimi, macellazione, trasformazione, distribuzione) insorgerebbero. Ed è prevedibile la lista delle contromisure:

  • Allarme per i posti di lavoro a rischio.
  • Pericolo per le nostre esportazioni alimentari (in particolare i due prosciutti e i due formaggi che sono la bandiera del nostro Made in Italy).
  • Critiche ai fondamenti scientifici della “Great Food Transformation” instillando dubbi sulla competenza degli esperti, sui metodi impiegati, sulle fonti dei dati, su interessi reconditi.
  • Richiesta di avviare nuove (e possibilmente lunghe) ricerche per verificare le conclusioni.
  • Richiesta di consultazione preventiva di comitati di stakeholders prima dell’adozione di qualunque decisione operativa.
  • Finanziamento di campagne di controinformazione sui media e nei social network.
  • Invocazione della libertà individuale in tema di alimentazione.
  • Dimostrazioni di piazza, blocchi di strade, ecc. come avvenne durante il periodo delle “quote latte”.

Alla fine, quale gruppo politico si imbarcherebbe in una campagna di sostegno della “Great Food Transformation” così rischiosa? Chi vorrebbe che la collettività (con le tasse) si facesse carico di compensare allevatori e industriali per una parte almeno degli introiti perduti? Chi, in Italia (!) vorrebbe decidere come i cittadini debbano mangiare? La libertà individuale (anche quella di farsi del male con diete inadeguate) da noi è sacra quando si tratta di cibo.

I politici sono troppo condizionati da una visione di breve periodo (le prossime elezioni) per rischiare di imbarcarsi in campagne impopolari, anche se per la soluzione di ben più gravi problemi che certamente si presenteranno qualche anno dopo (declino della salute pubblica, collasso del clima).

Eppure la EAT-Lancet Commission pone la costruzione di una “volontà politica” alla base di qualsiasi iniziativa che voglia sperare di avere successo. Temo che, se questa sia la condizione necessaria, ovvero una volontà dei governi, aspetteremo molto a lungo.

Unica prospettiva pacifica che riesco ad intravvedere è una rivoluzione dal basso. Una presa di coscienza della generalità delle persone di questo mondo che cambiare comportamenti convenga a tutti noi, per il nostro benessere di oggi (salute) e di domani (clima). In particolare, credo che il movimento degli adolescenti coalizzati intorno a Greta Thunberg negli scioperi per il clima possa rappresentare la vera speranza, sempre che riesca a mantenere la direzione senza sbandamenti.

Dal basso può emergere una rivoluzione delle coscienze che porti ad una rivoluzione dei comportamenti dei consumatori. Se i vegani, vegetariani, pescatariani, flexitariani saranno considerati modelli da imitare anziché, come spesso accade oggi, da compatire o deridere o da stigmatizzare come posizioni di fanatici, allora sì, il settore delle produzioni animali si sgonfierebbe per carenza di domanda e non ci sarebbe bisogno di politici coraggiosi, in grado di resistere alle lobby e al rischio di impopolarità.

L’unica alternativa che vedo non è per nulla desiderabile né pacifica. La causa di un cambiamento radicale dei consumi potrebbe infatti essere un terzo conflitto globale; in realtà non sarebbe necessario che il Paese fosse impegnato direttamente in conflitti. Non sarebbero necessari bombardamenti, distruzioni, stragi di civili. Basterebbe un’interruzione o un forte rallentamento dei commerci internazionali ed anche in Paesi come l’Italia si porrebbe il problema se produrre mangimi per alimentare gli animali, in sostituzione delle attuali massicce importazioni, o utilizzare le terre per produrre alimenti per l’uomo.

Se venissero meno le importazioni di cereali dal Nord-America, di oleaginose dal Sud-America, o anche di grano dall’Ucraina, inevitabilmente lo sviluppo di un’agricoltura “autarchica” avvicinerebbe le diete degli italiani a quella universale proposta dalla EAT-Lancet Commission.

Se proprio dovessi scommettere, con un bel po’ di pessimismo, scommetterei sulla seconda ipotesi.

Stefano BISOFFI

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Migrazioni dall’Africa: vogliamo aprire gli occhi?

Poche decine di migranti su una nave tenuti all’àncora al largo di un porto italiano. Scene che si sono ripetute nel 2018 e che si riaffacciano già all’inizio di quest’anno. Una retorica “difesa dei confini” diventa la bandiera di chi probabilmente non ha né idee un po’ più serie da proporre agli italiani né una chiara percezione del fenomeno delle migrazioni.

Voglio porre tre questioni sul tavolo: a) la presunta differenza tra rifugiati ed emigranti economici; b) la nostra storia di emigrazione; c) l’assurda illusione di poter controllare i flussi dall’Africa.

  1. I rifugiati, riconosciuti come tali dalle convenzioni internazionali, sono coloro che fuggono da guerre o persecuzioni politiche, religiose o etniche che ne mettono a repentaglio la sopravvivenza. Migranti economici sono quelli che fuggono da Paesi in cui patiscono la fame, non hanno lavoro, non possono assicurare un futuro dignitoso ai figli; insomma, cercano un luogo dove avere una vita migliore. Ditemi voi perché questi ultimi debbano essere considerati dei furbi, degli usurpatori di diritti altrui, degli invasori, degli abusivi da respingere con ogni mezzo al posto da cui sono partiti. E’ o non è un’aspirazione legittima quella di cercare un futuro migliore? Che differenza c’è tra l’africano che cerca di venire in Europa magari con la prospettiva di fare il bracciante o l’operaio o il muratore o l’addetto alle pulizie e i nostri giovani brillanti ricercatori che cercano all’estero condizioni migliori di quelle che il nostro sclerotico sistema universitario e degli Istituti di ricerca offre loro? In quest’ultimo caso, addirittura, colpevolizziamo i nostri giovani, i “cervelli in fuga”, quasi avessero commesso un tradimento della patria. Chi lascia il luogo in cui è nato e cresciuto, la propria rete di relazioni umane per “cercar fortuna” altrove ha diritto a rispetto per le ragioni e ad ammirazione per il coraggio; tutti senza distinzioni.
  2. Un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori è quanto sta scritto sulle facciate del palazzo della Civiltà Italiana all’EUR, a Roma. Si calcola che negli anni dall’Unità d’Italia agli anni ’80 del secolo scorso siano emigrati quasi 19 milioni di italiani, in maggioranza verso le Americhe o verso altri Paesi europei; questo numero è all’incirca quattro volte il numero degli stranieri residenti in Italia (5 milioni) e quest’ultimo è di pochissimo superiore al numero degli italiani residenti all’estero (4,9 milioni). E tranne i pochi che sono fuggiti dalle persecuzioni fasciste, erano tutti “migranti economici” che “cercavano fortuna” in paesi lontani. Ma allora di cosa stiamo parlando? Ci facciamo prendere in giro de qualche politico dalla faccia truce? Temo proprio di sì.
  3. In Europa (il continente, non l’Unione Europea) ci sono poco meno di 750 milioni di abitanti (di cui 500 milioni nella UE); in Africa 1,2 miliardi. Ma facciamo un salto di qualche anno, fino al 2050, circa trent’anni da oggi. In Africa ci saranno 2,5 miliardi di abitanti, circa il doppio di oggi; in Europa saremo scesi a 715 milioni. Mettiamola in un altro modo: nei prossimi trent’anni, ci saranno tanti africani in più di ora quanti il doppio di tutti gli europei di oggi. E noi (qualcuno di noi) pensa che si possa frenare la voglia di tanta gente di condividere un po’ del nostro benessere fermando le barche della speranza nel Mediterraneo? A me sembra che per credere una cosa del genere ci si debba riempire il cervello di stoppa anziché di materia grigia. Cerchiamo, invece, di aiutare in modo serio lo sviluppo sociale ed economico dei Paesi africani invece di lasciare che le imprese del mondo cosiddetto civile li rapinino delle loro risorse, spesso alimentando governi corrotti con pratiche che, in nome della libertà di iniziativa economica, sfuggono ad ogni controllo di leggi dei paesi d’origine.

Le migrazioni ci sono sempre state e sempre ci saranno; la storia del mondo è una storia di migrazioni. L’Italia è stata nei secoli un luogo di passaggio di greci, fenici, galli, goti, longobardi, bizantini, arabi, franchi, normanni; e la sua ricchezza artistica e culturale dipende anche da questa mescolanza di culture e tradizioni. Chiudere i porti adesso è una barzelletta … che non fa ridere.

Stefano BISOFFI

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Sopravviveremo alla complessità? (prima parte)

E’ chiaro a tutti che viviamo in un mondo sempre più complesso, in cui le componenti che interagiscono tra loro sono sempre più numerose e sono parti di reti di relazioni sempre più vaste e ramificate. Ma siamo attrezzati per gestirla? Chi non ha mai sentito citare “approccio olistico”, “gestione della complessità”, “transdisciplinarità”?

Nella gestione della complessità io vedo tre questioni principali:

  1. Come facciamo a comprenderla e a dominarla? Come facciamo ad orientarci in reti che sembrano labirinti nei quali entriamo senza una mappa? Possiamo affidarci alla tecnologia; ad esempio all’intelligenza artificiale?
  2. Come facciamo a far sì che la complessità porti stabilità, come negli ecosistemi naturali, invece che instabilità e caos?
  3. Come ci attrezziamo “culturalmente” per migliorare la nostra capacità di capire e gestire sistemi complessi?

In questa prima parte provo ad affrontare la prima questione, la più ardua.

La mente umana non è predisposta per gestire la complessità. L’uomo cerca regole, punti di riferimento per orientarsi, componenti principali. La mente dell’uomo crea una mappa semplificata della realtà che gli consente di navigare a vista.

Non che l’uomo neghi la complessità del mondo reale; semplicemente ragiona su un piccolo sottoinsieme delle sue componenti e soprattutto delle possibili interazioni tra queste. Perché altrimenti è perso.

Dalla ricerca agraria voglio trarre un esempio: quello degli esperimenti “fattoriali”. Ad esempio, se si vogliono valutare gli effetti di diversi livelli di combinazioni di fertilizzazione azotata (N), di potassio (K) e di fosforo (P) con diversi livelli di irrigazione (I), diverse profondità di lavorazione del terreno (L) e così via, per l’influenza che essi esercitano sulla produzione di una coltura (es. mais), la modalità tipica è di definire vari livelli (dosi) di applicazione di ciascun fattore (supponiamo tre) e applicare ad uno o più appezzamenti (parcelle) ogni combinazione di livelli di ciascun fattore. Nel caso in esame le combinazioni sarebbero 3(N) x 3(K) x 3(P) x 3(I) x 3 (L) = 243. Ma a parte la complessità di realizzazione (la programmazione statistica degli esperimenti consente alcune semplificazioni), è l’interpretazione dei dati che pone grossi problemi.

Possiamo stimare statisticamente l’effetto “principale” di ciascun fattore. Ad esempio, l’effetto delle diverse dosi di N quando applicate ad un insieme di tutte le combinazioni degli altri fattori e livelli: potremmo ad esempio trovare che all’aumentare della dose aumenta la produzione. E così per gli altri fattori.

Ma poi ci sono le “interazioni”. Ad es. NxK: qual è l’effetto delle dosi di N applicate a parcelle che hanno ricevuto diversi livelli di K (e un insieme di tutte le combinazioni di livelli di P, I, L)? Potrebbe esserci una risposta diversa all’azoto in funzione del livello di K che può orientarci verso una combinazione ottimale dei due elementi.

E le interazioni più complesse? NxKxP. Qual è l’effetto di differenti livelli di P quando applicato a ciascuna combinazione di NxP (9) ma con un insieme di tutti i livelli di I e L?

E le interazioni NxKxPxI? E NxKxPxIxL? Statisticamente possiamo stabilire se siano “significative” (ovvero, probabilisticamente parlando, non imputabili al caso); ma nella pratica come le interpretiamo? Quale indicazione pratica trarne? Molto difficile. Non per nulla gli agronomi considerano interessanti gli effetti principali e le interazioni a due fattori; poco quelle superiori: perché non si capisce bene come vadano interpretate e quindi non sono molto utili nella pratica.

Nell’esempio appena fatto, oltretutto, stiamo parlando di una realtà semplificata, costruita dall’uomo secondo uno schema definito. Immaginiamo la difficoltà di interpretare relazioni complesse in sistemi naturali, semplicemente con la misura e l’osservazione.

O più ancora in sistemi sociali o economici, nei quali magari l’osservatore interferisce con il fenomeno.

Una risposta possibile è affidarsi alla tecnologia informatica, alle capacità dei computer di elaborare enormi quantità di dati in poco tempo e senza errori.

Per molti fenomeni già ci si affida totalmente alla tecnologia nella gestione di sistemi complessi. La gestione del traffico aereo, la rete di distribuzione dell’energia elettrica, le transazioni bancarie, le previsioni meteorologiche non sarebbero possibili se non si fossero sviluppati sistemi automatici che hanno sostituito l’uomo e che rispetto all’uomo sono molto più affidabili e veloci.

Anche i modelli matematici applicati all’analisi di fenomeni naturali (clima), o legati alle attività dell’uomo (produzioni agricole) o alle grandezze economiche e finanziarie sono sempre più sofisticati ed efficaci, anche se, dal punto di vista logico, si basano sempre su una semplificazione della realtà, sulla riduzione della complessità ad un modello interpretativo..

Ma come scrisse George P.E. Box All models are wrong, but some models are useful. Sbagliati perché sono sempre approssimazioni e mai rappresentazioni esatte della realtà; utili perché un’approssimazione è sempre meglio che navigare nel buio.

Credo che nessuno dubiti dell’utilità di modelli e algoritmi per l’interpretazione e la gestione di sistemi fisici o magari biologici.

Ma altrettanto, se non più complessi, sono i fenomeni sociali e politici, che pure sono fondamentali nelle società moderne.

Le relazioni tra tipi, tempi e modalità del lavoro e paghe, tra lavoro e disoccupazione, tra capitale, lavoro, consumi, tasse e servizi, tra politica e amministrazione, tra famiglia, scuola e ambiente sociale nell’educazione, tra redditi, stili di vita, diete, salute e spesa sanitaria, tra integrazione e respingimento di migranti, … sono anch’esse complesse e potrebbero essere analizzate con modelli logici e matematici, alla ricerca di combinazioni ottimali o quantomeno soddisfacenti, o per prevedere, e quindi poter evitare, collassi e catastrofi.

Ma chi accetterebbe di affidare ad un modello matematico le decisioni su aspetti che, correttamente, riteniamo “politici”? In democrazia non importa che le opinioni siano giuste o sbagliate (o, probabilisticamente parlando, più giuste che sbagliate o viceversa). Ognuno ha diritto di scegliersi i rappresentanti che ritiene più adatti a difendere quelle opinioni, giuste o sbagliate che siano, perlomeno in una “democrazia rappresentativa”; o magari di difenderle e diffonderle in prima persona, come adesso sembra possibile (illusione?), con i mezzi di interazione sociale tramite Internet, in un’ipotesi (illusione?) di “democrazia diretta”.

Il fatto che ognuno di noi abbia una visione limitata delle cose, che sia condizionato dai propri interessi nella scelta di cosa ritenere giusto o sbagliato, o che semplicemente affronti le questioni politiche come il tifo nel calcio, per senso di appartenenza più che per una valutazione “oggettiva” della realtà, fa sì che la complessità venga affrontata in modo assai diverso da quanto si vorrebbe in teoria. Non c’è “approccio olistico”, ma solo una rappresentazione semplificata, interessata, preconcetta della realtà.

Credo che, al di là delle esortazioni ricorrenti ad affrontare la complessità con strumenti adeguati, dobbiamo rassegnarci a vivere in un mondo in cui decisioni che ci riguardano da vicino siano assunte “con la pancia” più che “con la testa”; perlomeno in una società che voglia definirsi democratica.

Forse sono condizionato, in questa mia valutazione, dalla deriva populista che ha preso il dibattito politico in anni recenti, non solo in Italia. Ma è questa la democrazia? David Brooks scrisse in un articolo pubblicato sul New York Times (1): Democracy is not average people selecting average leaders. It is average people with the wisdom to select the best prepared. E tra le caratteristiche di un buon leader politico, Brooks mette al primo posto la “prudenza” che definisce così: “It is the ability to grasp the unique pattern of a specific situation. It is the ability to absorb the vast flow of information and still discern the essential current of events — the things that go together and the things that will never go together. It is the ability to engage in complex deliberations and feel which arguments have the most weight”. Non è altro che la capacità di assumere decisioni avvedute in situazioni complesse.

Non resta che sperare in una democrazia in cui sia recuperata la capacità di scegliere come propri rappresentanti persone preparate e prudenti.

Stefano BISOFFI

(1) “Why Experience Matters”: https://www.nytimes.com/2008/09/16/opinion/16brooks.html), 15 settembre 2008.

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A quale logica deve ispirarsi la ricerca pubblica?

La ricerca pubblica utilizza risorse dei contribuenti ed è quindi naturale che si pretenda che essa sia utile, che valga i soldi che costa. In genere si usa dire che la ricerca deve avere un “impatto” concreto; ma la questione non è così semplice, perché tutto dipende da quali criteri si debbano adottare per valutare l’utilità, da chi debba trarre beneficio dai risultati e in che tempi gli effetti positivi si debbano manifestare.

Negli ultimi anni in Europa, con il 7° Programma Quadro della ricerca e ancor più con il suo successore Horizon 2020, ma anche a livello nazionale e regionale si è affermata l’idea che la ricerca debba innanzitutto avvantaggiare le imprese, perché queste creano ricchezza per il Paese, danno lavoro alle persone e sono quindi il motore del benessere. Non si parla più solo di finanziare la ricerca ma anche, ed ora forse principalmente, l’innovazione, ossia la traduzione dei risultati in prodotti o servizi resi disponibili sul mercato.

In realtà non è detto che gli interessi dell’impresa privata (e del capitale investito che essa intende far fruttare) coincidano con gli interessi della società. La famosa “mano invisibile” del libero mercato teorizzata da Adam Smith in “The Wealth of Nations” ha dimostrato molto chiaramente i propri limiti nel costruire un benessere diffuso e soprattutto distribuito in modo equo. Mi riferisco in particolare ad una crescente divaricazione fra la remunerazione del capitale rispetto al lavoro, alle frequenti esternalità negative dei processi produttivi, alla competizione impari tra le imprese più forti e le più deboli che produce sì vincitori ma anche molti sconfitti, alla capacità delle imprese di esercitare un’influenza sulla politica minando il dialogo democratico.

Analizziamo allora le diverse logiche possibili per definire quali siano i criteri che debbano guidare gli investimenti pubblici in ricerca:

  1. Ricerca per le imprese e con le imprese: come sopra accennato, questa è l’idea attualmente prevalente; le agende strategiche di ricerca sono dettate dall’industria, centrate sulle sue aspettative di innovazione e di crescita della capacità competitiva. Le imprese, soprattutto le grandi imprese, che spesso sono anche quelle con notevoli capacità di ricerca proprie, sommano così alle risorse finanziarie e alle competenze interne anche le risorse messe a disposizione dalle amministrazioni pubbliche, sia attraverso finanziamenti diretti che attraverso i finanziamenti concessi alle università e agli enti pubblici di ricerca (EPR).
  2. Un’altra possibile logica per la ricerca pubblica è di finanziare esclusivamente la ricerca “libera”: è detta anche ricerca di base, pura, fondamentale, ”curiosity driven” ed è finalizzata solo all’accrescimento delle conoscenze, senza considerazione per l’applicabilità dei risultati nella vita reale. Starà poi a chi sarà in grado di combinare i pezzi di conoscenza in qualcosa di applicabile di trarne i frutti. Molti strumenti di uso comune (es. i telefoni cellulari) utilizzano tecnologie di origine disparata e nate da ricerche di base (la trasmissione radio, il laser, i cristalli liquidi, …). Alla fine, con ogni probabilità, sarebbero sempre le imprese più forti economicamente e con le maggiori competenze tecnologiche a trarne i maggiori vantaggi, cui si aggiungerebbero start-up innovative, magari nate da costole delle università o degli EPR (spin-off). Una forte spinta alla ricerca di base è data dai programmi europei finanziati attraverso lo European Research Council.
  3. All’estremo opposto si colloca una situazione in cui l’intervento pubblico nella ricerca è minimo o addirittura assente, o magari limitato al finanziamento del “metabolismo basale” (stipendi del personale di ruolo, funzionamento) delle università e degli EPR o a parte di esso, obbligando le istituzioni a ricercare finanziamenti “sul mercato” per avviare programmi effettivi di ricerca. Ovviamente la ricerca sarebbe, ancor più che nel primo caso, fortemente plasmata sugli interessi dei finanziatori. Vale il detto inglese “who pays the piper calls the tune” (chi paga i suonatori sceglie la musica). Non è una situazione tanto remota, visto che in molti Paesi avanzati i finanziamenti pubblici per la ricerca sono drammaticamente in calo.
  4. Un approccio radicalmente diverso è quello che definisco reverse engineering: si potrebbe ipotizzare una “società ideale” nella quale prevalgano valori condivisi di solidarietà, eguaglianza, rispetto per l’ambiente, attenzione ai diritti e alle legittime aspettative delle generazioni future, un benessere (inteso letteralmente come ben essere) diffuso ma determinato più dalla qualità delle relazioni e dalle possibilità di sviluppo della personalità e delle capacità creative che dal consumo di risorse. Da questo modello ideale si dovrebbero derivare le esigenze di ricerca, ovvero indirizzare la ricerca verso quelle innovazioni tecnologiche e sociali che meglio possano condurvici. Si tratta di un’utopia, forse, ma perché rinunciare a porre i “valori” come criteri guida, anziché il mercato, la crescita economica, la competitività?
  5. Meno utopistica ma altrettanto orientata alla società nel suo insieme è una ricerca pubblica che tuteli prioritariamente gli interessi collettivi, spesso calpestati in una logica di mercato, soprattutto nella sua estremizzazione neo-liberista. La ricerca dovrebbe tutelare la salute pubblica (ad esempio verificando in modo indipendente le possibili conseguenze negative di nuovi materiali e di nuove tecnologie), dovrebbe favorire la conservazione e il miglioramento dei beni comuni: l’ambiente, le acque, il territorio, la biodiversità; tutti ambiti che non possono essere soggetti alla logica del mercato. Scrisse Karl Polany (The Great Transformation, 1944): Market-based mechanisms cannot be expected to provide solutions to societal and environmental challenges (Non ci si può aspettare che meccanismi basati sul mercato offrano soluzioni a sfide sociali e ambientali). La ricerca pubblica avrebbe quindi una funzione di garanzia del bene pubblico rispetto agli interessi privati.

Queste cinque categorie sono ovviamente caratterizzazioni estreme di logiche che possono in parte convivere. Nessuna rappresenta da sola una soluzione ideale o quantomeno soddisfacente. È però importante conservarle come schemi mentali nei dibattiti sulla ricerca e sulle sue priorità.

Va anche sfatato un mito: che la ricerca cosiddetta “applicata” sia sempre in grado di avere “impatti” concreti nell’arco di vita dei progetti di ricerca o anche in momenti immediatamente successivi. Uno studio molto interessante condotto qualche anno fa dall’INRA (Institut National de la Recherche Agronomique) analizzando retrospettivamente alcune innovazioni rilevanti in campo agricolo e tracciando i risultati della ricerca scientifica che li avevano resi possibili, aveva determinato in quasi vent’anni la distanza temporale tra risultati scientifici ed effetti tangibili. Ciò significa che quando in sede di predisposizione di progetti si insiste sull’impatto che avranno le ricerche, il più delle volte si tratta di affermazioni esageratamente ottimistiche e quindi di scarso valore.

Ritornando quindi alle parole iniziali, credo che si dovrebbe sostituire alla parola “impatto”, che tra l’altro evoca immagini poco positive, le parole “creazione di valore”: la ricerca deve “creare valore”. L’ambiguità in realtà permane anche sul concetto di valore, che è essenzialmente monetario in una logica di puro mercato, ma che è ben più elevato e nobile, anche se difficilmente misurabile, se nel “Valore” si comprendono quei fattori immateriali che danno un senso alla vita.

Spostare l’attenzione della ricerca dalle imprese alla società nel suo insieme avrebbe anche l’effetto di ricostruire intorno alla ricerca e ai ricercatori un consenso e una fiducia che attualmente è assai modesta.

Stefano BISOFFI

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Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?

Ricordate la canzone di Gaber? Il bagno è di destra, la doccia di sinistra; il culatello di destra e la mortadella di sinistra.

Ora sembra che le differenze tra destra e sinistra si riducano a queste banalità, con partiti e schieramenti che, come squadre di calcio, si distinguono più per la maglia che indossano che per come giocano; con tifoserie che, come quelle del calcio, si schierano di qua o di là per senso di appartenenza più che per condivisione di linee politiche.

Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? Esiste ancora un senso in queste parole? Forse gli unici che l’hanno capito sono i “Cinque Stelle” che si dichiarano “né di destra né di sinistra”; sanno bene che se scegliessero un’etichetta o l’altra perderebbero una fetta consistente di coloro che li hanno votati, tanti “di destra” e tanti “di sinistra”.

Rimane allora qualcosa, di una diversità ideale (non ideologica, perché l’ideologia è acritica, come il tifo!) tra destra e sinistra che sopravviva ancora oggi all’abuso che si è fatto di queste due parole? Io credo di sì e provo a spiegarlo.

La contrapposizione ideale oggi è tra individuo e società, tra utilità personale e utilità collettiva, tra proprietà privata e beni comuni. Intendiamoci: questi sono i due poli, ma come i poli geografici sono zone inospitali; in mezzo c’è un’ampia gamma di gradazioni possibili, ma le due direzioni vanno riconosciute come riferimenti, appunto, ideali.

Nessuno, perlomeno nei Paesi di tradizione democratica, penserebbe di abolire la proprietà privata: la casa, la macchina e gli elettrodomestici (anche se qui si potrebbe aprire un altro ragionamento in un ambito di economia circolare), gli arredi, magari la seconda casa, i risparmi in banca, la terra degli agricoltori, il laboratorio dell’artigiano, l’impresa che dà lavoro.

Ma è legittimo porsi il dubbio se sia ammissibile che alcuni, pochi, pochissimi abbiano proprietà private per un valore pari alla metà del resto del mondo; redditi individuali maggiori del PIL di interi Paesi. E’ legittimo porsi il dubbio se il neoliberismo, in cui i capitali seguono la finanza e non gli investimenti produttivi, possa essere accettato come fondamento della nostra società. E’ legittimo porsi il dubbio se sia ammissibile che la maggior parte del reddito d’impresa remuneri il capitale e non il lavoro. E’ legittimo porsi il dubbio se sia ammissibile che i Paesi del Nord del mondo, per il livello di consumi che hanno, continuino ad essere i maggiori responsabili dei cambiamenti climatici e quelli del Sud del mondo le prime vittime.

Nemmeno l’altro estremo è un panorama attraente. L’abolizione della proprietà privata, la collettivizzazione di terre e fabbriche, lo Stato padrone di tutto ed elargitore dei mezzi di sussistenza, sono esperienze fallimentari già percorse da vari regimi. Uno scenario in cui tutti i gatti sono grigi, l’iniziativa individuale è mortificata, in cui tutti sono uguali ma alcuni “più uguali degli altri” non è certo la società in cui la maggior parte di noi vorrebbe vivere.

Fra questi estremi, che ormai ha poco senso definire con i termini di destra e sinistra, si collocano i modelli di società possibili e le scelte politiche possibili, con la consapevolezza che non si può avere “la botte piena e la moglie ubriaca”, che non si può promettere meno tasse e più servizi, o lavoro per tutti e favorire nel contempo il capitalismo finanziario, libertà di circolazione dei capitali ed equità fiscale, deregulation e tutela dei diritti.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia, ma io dico che la colpa è nostra: è evidente che la gente è poco seria quando parla di sinistra o destra” (Gaber).

“We are the 99%” era lo slogan del movimento “Occupy Wall Street”. Rendiamoci conto che il “bene comune” è il bene del 99%, non dell’1%; che ci sono beni collettivi, come ambiente, clima, biodiversità che non hanno e non possono avere un prezzo. Vi invito a leggere o rileggere l’enciclica di Papa Francesco “Laudato sii”, messaggio chiaro e autorevole in difesa del bene comune, del patrimonio naturale e sociale di tutti gli uomini e delle generazioni future.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra la mancanza di morale è a destra; anche il Papa ultimamente è un po’ a sinistra” (Gaber).

Gaber profetico? Naturalmente il moralismo non è la morale ma la sua caricatura; se non vogliamo conservare le vecchie distinzioni, diciamo che Papa Francesco non è un moralista (e ne ha dato prova in diverse occasioni) ma è difensore di una morale: quella del bene comune, della solidarietà, dell’equità.

E’ di sinistra? O è semplicemente una visione del mondo di buon senso? Decidete voi.

Stefano BISOFFI

Articolo liberamente riproducibile purché si indichino l’Autore e il link da cui è tratto