Le rivolte degli agricoltori sbagliano il bersaglio

Non si è ancora sopita la protesta degli agricoltori di vari Paesi europei; i loro trattori sono ancora incolonnati per le nostre strade o fermi ad occupare piazze in diverse città. Sicuramente ci sono molte ragioni che giustificano la rabbia, a partire dalla remunerazione del lavoro:

    • il prezzo che i consumatori pagano al (super)mercato per i prodotti alimentari viene assorbito prevalentemente dall’industria di trasformazione e dalla distribuzione;
    • il costo dei fertilizzanti e dei prodotti fitosanitari è cresciuto significativamente, anche a seguito della guerra in Ucraina;
    • siccità e inondazioni hanno ridotto le produzioni in molte parti d’Italia e d’Europa con un impatto diretto sulle aziende agricole.

Quello che fatico a comprendere è il bersaglio: l’Europa. Per diverse ragioni:

    • La PAC (Politica Agricola Comune) non è imposta da un’Autorità sovranazionale; è il frutto di una concertazione tra Commissione (in cui ogni Stato Membro ha un proprio Commissario), il Consiglio (espressione dei Governi in carica) e il Parlamento (eletto dai cittadini). Chi critica “l’Europa”, soprattutto se è parte del Governo nazionale, dovrebbe chiedersi dov’era quando la PAC è stata decisa. Si erano distratti un attimo? Era stata decisa “col favore delle tenebre”?
    • La PAC assorbe circa il 40% delle risorse gestite dalla Commissione Europea; nessun altro settore economico è destinatario di tanti quattrini. Una buona parte di questi soldi arriva agli agricoltori come “pagamenti diretti”, ovvero contributi legati al possesso della terra, non alla sua destinazione colturale. Forse questi soldi sono ritenuti insufficienti; forse troppi soldi vanno a chi già ha redditi elevati (anche se ci sono dei tetti da non superare); forse dovrebbero essere meglio mirati. Ma ignorarli non si può.
    • Come giustificare queste erogazioni nei confronti dell’opinione pubblica? La Commissione, sempre d’accordo con Consiglio e Parlamento, ha nel corso del tempo ridotto la quota dei pagamenti diretti (c.d. “primo pilastro”) spostandoli al “secondo pilastro”, ovvero ad azioni che favoriscono il settore agricolo con mezzi diversi (assistenza tecnica, assicurazioni, organizzazione della produzione e commercializzazione) in un’ottica complessiva di “sviluppo agricolo”. Nel secondo pilastro sono stati inseriti anche incentivi per la preservazione degli ecosistemi, diminuire le emissioni di gas serra, favorire la biodiversità, nella consapevolezza che ad un contributo che grava su tutti i cittadini debba anche corrispondere un beneficio per la collettività.
    • Questo “secondo pilastro” per chiarezza, viene co-finanziato a livello nazionale o regionale e sono i rappresentanti dei territori (le Regioni in Italia) che definiscono le priorità insieme alla Commissione. Quest’ultima deve garantire che vengano rispettati i principi di fondo della PAC.
    • Molta, troppa burocrazia? Forse, ma questo è anche determinato dalla molteplicità di azioni finanziabili e dalla necessità, trattandosi di soldi pubblici, di garantire che siano spesi correttamente. Può darsi che la progressiva digitalizzazione e gli strumenti tecnologici (es. telerilevamento) miglioreranno la situazione.

I prezzi pagati agli agricoltori per i loro prodotti in azienda (farm gate) sono spesso vergognosamente bassi rispetto ai prezzi pagati dai consumatori finali. Un litro di latte viene pagato agli allevatori 45 centesimi; dal consumatore, al supermercato, almeno il triplo; spesso anche il quadruplo o il quintuplo. E’ difficile pensare che raccogliere, pastorizzare, confezionare e distribuire il latte costi tre, quattro, cinque volte quanto mantenere la mucca, nutrirla, mantenerla in salute, mungerla.

Analoghe situazioni si verificano per molti altri prodotti agricoli, ma ritengo che la soluzione non possa essere cercata in un cambio delle politiche agricole regionali, nazionali o europee, bensì in un cambio dei rapporti di forza nelle filiere. Finché i gruppi d’acquisto che riforniscono la grande distribuzione non troveranno dall’altra parte organizzazioni dei produttori capaci di contrattare sul libero mercato con altrettanta forza data dai numeri, non c’è speranza di cambiamento. Il tempo dei prezzi garantiti a livello europeo, che aveva portato all’eccesso di produzione e conseguente distruzione di prodotti in molti settori è finito.

E veniamo alla questione più critica delle proteste degli agricoltori, ma anche più scandalosa delle risposte date dalla politica alle contestazioni: le misure previste dalla PAC a favore della biodiversità e della mitigazione dei cambiamenti climatici.

Partiamo da una considerazione di carattere generale: gli agricoltori sono i più esposti, i più vulnerabili ai cambiamenti del clima e alla perdita di biodiversità degli ecosistemi agrari e forestali. La siccità, le inondazioni, le tempeste di vento colpiscono le colture molto più che le industrie, gli uffici, i trasporti, i servizi. Gli agricoltori dovrebbero essere quindi in prima linea con i movimenti ambientalisti, dovrebbero insultare chi parla di “ideologia” della tutela dell’ambiente. I rischi climatici e di perdita della biodiversità sono “scienza” non “ideologia”.

Gli agricoltori dovrebbero anche essere consapevoli del fatto che i sistemi alimentari (dal campo alla tavola) sono i responsabili di circa un quarto delle emissioni di gas serra in atmosfera e che quindi anche all’agricoltura si deve richiedere di “fare la propria parte”. Destinare il 4% della superficie alla conservazione della biodiversità, ridurre gradualmente il consumo di pesticidi e di fertilizzanti sono azioni delle quali gli stessi agricoltori beneficerebbero con una migliore funzionalità dei suoli, la salvaguardia degli insetti utili (api in testa ma anche parassiti di insetti dannosi alle colture) e, non da ultimo, una riduzione dei costi per prodotti chimici. Che questo sia possibile è dimostrato dall’esistenza e progressiva espansione dell’agricoltura biologica.

Ciò che gli agricoltori dovrebbero pretendere è, piuttosto, che anche gli altri settori della società siano chiamati a contribuire alla “transizione ecologica” in misura analoga, dai trasporti, al turismo, all’industria. E tutti noi, se vogliamo contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici e alla salvaguardia di biodiversità e ambiente, dovremmo adottare comportamenti individuali più sostenibili nella nostra vita quotidiana. Questo sarebbe una dimostrazione di solidarietà con gli agricoltori, molto più che lo smantellamento del “Green Deal” e delle strategie “Farm to Fork” e sulla Biodiversità come sembra si appresti a fare la Commissione.

Stefano BISOFFI

Articolo liberamente riproducibile purché si indichino l’Autore e il link da cui è tratto

Sviluppo sostenibile per tutti. Una chimera?

Premetto subito che quando parlo di “sviluppo” non intendo “crescita”. La crescita, soprattutto se misurata in termini economici, è strettamente correlata con lo sfruttamento delle risorse naturali e ambientali che è già insostenibile oggi e rischia di divenirlo ancor di più nei prossimi anni se proseguiranno i trend demografici ed economici attuali.

A livello mondiale si stanno consumando annualmente “1,7 pianeti” all’anno, ossia il 70% in più di quanto la terra potrebbe offrire senza depauperarsi. Globalmente stiamo vivendo al di sopra delle nostre possibilità. Stiamo erodendo il capitale invece che accontentarci degli interessi.

Stiamo oltrepassando quelli che Rockström (2009)[1] definì “planetary boundaries” (confini del pianeta). Ma allo stesso tempo non siamo in grado di garantire a tutti un livello di vita dignitoso: Kate Raworth (2017)[2] ha descritto come una ciambella (doughnut) uno spazio in cui siano soddisfatti vari indici di qualità della vita ma senza che ciò comporti un consumo di risorse oltre i confini sostenibili. Molti degli indici di qualità della vita si ritrovano nei “sustainable development goals” (obiettivi di sviluppo sostenibile) delle Nazioni Unite: cibo e acqua a sufficienza, accesso all’istruzione, parità di diritti per le donne, diritto alla salute, giustizia, lavoro, equità sociale, ecc.

Il problema è che anche buona parte di questi indici di sviluppo (non solo la crescita economica) sono correlati positivamente con il consumo di risorse, come ha messo in luce O’Neill (2018)[3] e quindi colmare i gap a livello sociale comporterebbe un aggravamento della situazione a livello climatico/ambientale.

Hickel (2019)[4] ha tentato un’analisi quantitativa, per quanto ardua con dati del genere, ed è giunto alla conclusione che uno “spazio giusto e sicuro” (“safe and just space”), ovvero all’interno della ciambella di Kate Raworth, è possibile solo se i Paesi ricchi caleranno i propri consumi. Attenzione: non “se eviteranno di crescere” ma se attueranno una “decrescita” (torna in mente la “décroissance sereine” di Serge Latouche).

Noi dei Paesi ricchi non dovremo essere più efficienti; dovremo proprio calare i consumi: meno viaggi, meno energia, meno rinnovo del guardaroba, case più piccole, cibi di stagione. Più sobrietà.

Ma questo succederà? Io sono molto pessimista. Per farlo occorrerebbe la consapevolezza “globale” della “globalità” del problema e della necessità di soluzioni “globali”. Ma il mondo sta oggi andando proprio nella direzione opposta, con un risorgere di nazionalismi, di difesa dei confini, di salvaguardia degli interessi particolari. Questo modo di pensare è stato espresso a parole nella maniera più sfrontata da Trump nel suo discorso del 24 settembre alle Nazioni Unite[5] che vi invito ad ascoltare. Ma anche piccoli politici nostrani che teorizzano il “prima gli italiani” sono fatti della stessa pasta; o Bolsonaro che tratta l’Amazzonia come un bene di esclusiva pertinenza del Brasile.

Eppure la correlazione tra “benessere” o “qualità della vita” o “felicità” e Prodotto Interno Lordo (PIL), indice imperfetto di crescita economica, e ancora più inutile come misura di sviluppo sociale ma ancora feticcio di larga parte dei politici e degli economisti, è molto debole. La “sensazione di benessere” non deriva tanto da elementi oggettivi ma dal confronto con l’ambiente circostante, dalle diseguaglianze che si percepiscono, dall’abitudine all’ambiente che ci circonda. Se tutti abbiamo di più non diventiamo più felici. Ma se dovremo rinunciare a qualcosa allora nasceranno insoddisfazione, risentimento, frustrazione.

Per questo sono parecchio scettico sulle possibilità di noi “ricchi” della terra di rinunciare al nostro cosiddetto benessere, anche se magari, razionalmente, saremo persuasi del fatto di vivere al di sopra delle possibilità del pianeta e che i nostri stili di vita da un lato freneranno lo sviluppo dei “poveri” della terra e dall’altro spingeranno tutti, “ricchi” e “poveri” a sbattere contro il muro di un clima fuori controllo.

Non sarà la fine del mondo; ci sono già state epoche geologiche finite (es. l’era dei dinosauri) e altre cominciate. La vita continuerà e forse anche l’homo sapiens; ma non la civiltà come noi la conosciamo.

Stefano BISOFFI

Articolo liberamente riproducibile purché si indichino l’Autore e il link da cui è tratto.

[1] Rockström J et al. 2009. A safe operating space for humanity. Nature 461, 472–475.

[2] Raworth K. 2017. Doughnut Economics. Seven ways to Think Like a 21st -Century Economist. Random House Business Books. London.

[3] O’Neill DW et al. 2018. A good life for all within planetary boundaries. Nature Sustainability, 88, 1, 88–95.

[4] Hickel J. 2019. Is it possible to achieve a good life for all within planetary boundaries? Third World Quarterly, 40, 1, 18-35.

[5] “The free world must embrace its national foundations. It must not attempt to erase them or replace them. The future does not belong to globalists, the future belongs to patriots.” https://www.reuters.com/article/us-un-assembly-trump-globalism/trump-calls-on-nations-to-reject-globalism-embrace-nationalism-idUSKBN1W91XP.

Tipping point

Tipping point potrebbe essere tradotto (dall’inglese) come “punto di non ritorno”. Nel caso dei cambiamenti climatici esso significa una soglia di temperatura oltre la quale il riscaldamento continuerebbe a valanga, in modo irreversibile, senza alcuna possibilità per l’umanità di fermarlo o di invertire la rotta.

Nessuno sa di preciso quale sia questa soglia; gli obiettivi che l’accordo di Parigi del 2015 si prefiggeva erano dettati più da buon senso e da buone intenzioni che da dati scientifici certi. L’accordo prevedeva che ogni Paese mettesse in atto tutte le misure necessarie per contenere il riscaldamento globale entro i 2°C rispetto al periodo preindustriale, possibilmente entro 1,5°C. Ma qual è la ragione di questi valori? In parte pragmatismo: siamo già a +1°C, con un trend in aumento; dire che ormai non c’è più nulla da fare significa lavare le coscienze: se ogni sacrificio per salvare il clima è inutile, che senso ha impegnarsi? Quindi: 2°C, meglio se 1,5°C. Così si dà il senso di un certo margine di manovra, seppure stretto, anzi, secondo i più recenti rapporti dei ricercatori, strettissimo.

Un problema sottovalutato nel dibattito generale sul clima è che i cambiamenti indotti da un aumento della temperatura non agiscano in modo indipendente ed additivo ma rinforzandosi a vicenda. Steffen et al. (2018)[1] espongono molto chiaramente il rischio che si inneschino una serie di feedback positivi che facciano raggiungere più rapidamente di quanto si pensi un punto di non ritorno, nonostante interventi (ahimè tardivi) di ridurre le emissioni di gas ad effetto serra.

Un paio di esempi:

  1. I ghiacci già si sciolgono per effetto della temperatura attuale: una superficie bianca, che riflette la luce del sole viene rimpiazzata da una superficie scura (terra o oceani) che si scalda di più: più ghiaccio si scioglie per effetto del calore più il riscaldamento accelera.
  2. Nelle zone artiche (Russia, Canada) il riscaldamento porta allo scioglimento del permafrost, il terreno che è permanentemente ghiacciato al disotto di uno strato sottile che si sgela d’estate. I terreni a permafrost sono estremamente ricchi di sostanza organica che, sciogliendosi, si ossida emettendo CO2 o si decompone anaerobicamente emettendo metano (CH4), entrambi gas ad effetto serra; il secondo quasi trenta volte più potente del primo. Più aumenta la temperatura, più si scioglie il permafrost, più aumentano le emissioni di gas ad effetto serra che fanno ulteriormente crescere la temperatura.
  3. Nel mare è disciolta, sotto forma di acido carbonico, molta CO2 che altrimenti sarebbe in atmosfera. Ma l’equilibrio chimico è influenzato dalla temperatura: più questa si alza e più CO2 passa dall’acqua all’atmosfera contribuendo ulteriormente all’effetto serra.

Già lo scorso anno l’IPCC aveva pubblicato un rapporto[2] sui livelli di emissioni nette che consentirebbero di restare entro +1,5°C: azzeramento entro il 2055. Obiettivo possibile? Forse sì; concretamente attuabile nell’attuale frammentazione del panorama internazionale, in cui ogni Paese sembra voler andare per la sua strada e addirittura gli Stati Uniti rinnegano l’accordo di Parigi? Difficile. Qualche segnale incoraggiante viene dalle dichiarazioni del nuovo Presidente della Commissione Europea (emissioni nette pari a zero entro il 2050) e da analoghi o ancor più stringenti impegni assunti da Paesi quali il Regno Unito e la Germania, ma sono poche e probabilità che si raggiunga un’unità d’intenti e d’azione a livello mondiale, anche perché a dover compiere i sacrifici maggiori sono i Paesi ricchi.

Il primo passo dovrebbe essere eliminare ogni incentivo economico o fiscale a settori o attività economiche che aggravano i cambiamenti climatici; ma già in Italia si è visto che anche solo ventilare una riduzione dei benefici fiscali per l’autotrasporto (restituzione delle accise sul gasolio) o per l’agricoltura (gasolio a prezzo agevolato) suscita immediate reazioni difensive delle categorie colpite, tali da spaventare qualsiasi politico, anche se ben intenzionato.

Stefano BISOFFI

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[1] https://www.pnas.org/content/115/33/8252

[2] https://report.ipcc.ch/sr15/pdf/sr15_spm_final.pdf

Fermeremo la deriva climatica o è ormai una missione impossibile?

I Paesi che avevano partecipato alla conferenza sul clima di Parigi COP 21 del 2015 avevano concordato che, con iniziative definite in modo autonomo ciascuno, si dovesse contenere l’aumento di temperatura media mondiale rispetto all’epoca preindustriale entro i +2°C, possibilmente entro +1,5°C. Teniamo conto che già siamo arrivati a +1°C e si stanno sciogliendo i ghiacci ai poli (oltre a molti altri effetti negativi); e quindi, a +1,5°C o a +2°C, la situazione del clima sarà comunque inevitabilmente peggiore di quella attuale.

L’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) ha pubblicato a ottobre 2108 un rapporto sulle iniziative che l’umanità dovrebbe adottare per rimanere entro +1,5°C (https://www.ipcc.ch/site/assets/uploads/sites/2/2018/07/SR15_SPM_version_stand_alone_LR.pdf). Nel rapporto c’è il grafico riprodotto in testa all’articolo che rappresenta l’andamento che le emissioni di gas ad effetto serra (GHG) dovrebbe avere d’ora in poi per avere buone probabilità (non la certezza!) di raggiungere l’obiettivo.

Il grafico rappresenta i flussi, non gli stock. Ossia per ogni anno sono indicate le nuove emissioni di GHG che vanno ad aggiungersi a quelli già presenti in atmosfera. Come si vede, fino ad oggi, anno dopo anno, abbiamo immesso in atmosfera quantità sempre crescenti di GHG. La retta che precipita per arrivare a zero circa nel 2055 indica che da adesso in avanti, anno dopo anno, dovremmo ridurre drasticamente i flussi di GHG in atmosfera per azzerarli nel 2055.

Quale combinazione realistica di circostanze potrà far sì che l’obiettivo di emissioni zero nel 2055 si verifichi? La “Great Food Transformation” auspicata dalla EAT-Lancet Commission (https://hubs.ly/H0gcxY90) consentirebbe forse ai sistemi alimentari di apportare il loro rilevante contributo, ma gli ostacoli alla sua realizzazione sono enormi.

In ogni caso non basterebbe. Altri cambiamenti radicali sarebbero necessari in tempi rapidi.

Nei trasporti, ad esempio. I motori a combustione sono ancora dominanti; l’industria dell’auto è ancora considerata il termometro dell’economia; e comunque, anche se si optasse per l’elettrico, l’energia elettrica dovrebbe essere prodotta da qualche parte; e nella produzione di energia elettrica potrà aumentare la quota di rinnovabili (solare ed eolico in particolare) ma non da un anno all’altro; si potrà ridurre il carbone ma, per il momento, non si potrà fare a meno di petrolio e gas. Ma è soprattutto il continuo crescere dei volumi dei trasporti a vanificare ogni incremento di efficienza dei motori.

C’è inoltre un lag-time dato dalla vita utile dei mezzi di trasporto. Un aereo costruito oggi consumerà jet fuel (simile a kerosene) per trent’anni; un camion, gasolio per vent’anni. Si innesca quello che in inglese si definisce path dependency ovvero un condizionamento del futuro da scelte prese nel passato.

Il riscaldamento degli edifici è ancora basato largamente su gasolio, metano e GPL. Ogni cambiamento richiede tempo e investimenti.

Ci sono poi attività industriali (es. siderurgia, cementifici) nelle quali sono richieste grandi quantità di energia “puntuale” che al momento solo la combustione riesce a fornire.

Le transizioni necessarie sono costose non solo in termini economici, per gli investimenti che richiedono, ma anche in termini sociali e individuali di cambiamento di abitudini, stili di vita, distribuzione delle risorse tra Paesi e riduzione delle diseguaglianze. Come per la “Great Food Transformation” (v. articolo su “Clima e abitudini alimentari”, https://www.bisoffi.it/2019/03/03/clima-e-abitudini-alimentari/), quale governo democratico, dovendo dipendere da una maggioranza dei consensi e con frequenti elezioni, affronterebbe i rischi di una transizione drastica, inevitabilmente impopolare?

Vale oltretutto la “tragedia dei beni comuni” (tragedy of the commons), seppure al contrario. “Perché dovrei accollarmi un sacrificio per me oneroso se questo si traduce in un vantaggio infinitesimale per tutti? Chi me lo fa fare? O ci si mette tutti insieme o niente”. E siccome metterci tutti insieme è un’utopia, visto il risorgere di spiriti nazionalistici e il deteriorarsi dei sistemi multilaterali, non se ne farà nulla e si andrà a sbattere contro il muro.

Stefano BISOFFI

Articolo liberamente riproducibile purché si indichino l’Autore e il link da cui è tratto.

Clima e abitudini alimentari

La Commissione EAT-Lancet ha pubblicato a gennaio 2019 un rapporto che pone in relazione le abitudini alimentari e i cambiamenti climatici (https://hubs.ly/H0gcxY90). Il messaggio è chiaro: mangiare meno carne e più vegetali fa bene alla salute e può salvare il pianeta. Non si tratta di cambiamenti da poco: secondo il rapporto si dovrebbe ridurre ad un terzo il consumo di carne (specialmente di carni rosse) e raddoppiare frutta e verdura; le proteine di origine vegetale dovrebbero compensare il minore apporto di proteine animali.

La commissione, composta da 37 scienziati ed esperti, propone una “dieta universale”, coerente con le esigenze della salute umana e del pianeta, da non intendersi come “menu” o “libro di ricette” ma come quantità appropriate delle diverse componenti dell’alimentazione; si tratta di una dieta che è compatibile con un ampio spettro di tradizioni e culture. Osservando questa dieta universale, si garantisce il rispetto di limiti ambientali da parte dei sistemi produttivi tali da limitare l’effetto dei cambiamenti climatici entro confini che la maggior parte degli scienziati considera realisticamente accettabili.

Ma come arrivare a questa “Great Food Transformation”? E soprattutto, come arrivarci nei tempi rapidissimi necessari per scongiurare gli effetti negativi del sistema attuale su clima e ambiente? E come arrivarci senza innescare conflitti epocali? Su questo, francamente, non sono ottimista; e cerco di spiegare perché.

Le misure vanno attuate in singoli Paesi, o magari in singole Regioni. Non esiste un’Autorità sovranazionale in grado di imporle. Non ci sono trattati internazionali legalmente vincolanti, come fu, caso quasi unico, il protocollo di Kyoto, seppure solo per una parte dei firmatari.

Né e prevedibile che meccanismi efficaci di governance multilaterale si rafforzino in futuro; anzi, è evidente che sistemi di governance globale stanno via via perdendo peso in conseguenza di un risorgente spirito nazionalistico in molte parti del mondo: USA, Brasile, Turchia, vari stati europei tra cui Italia, Polonia, Ungheria e, ovviamente, anche il Regno Unito.

Ma entriamo nei casi concreti. La riduzione drastica dei consumi di carne e di prodotti di origine animale. Immaginiamo un Paese, come l’Italia, in cui si voglia azzerare qualsiasi forma di allevamento intensivo, che i bovini e gli altri ruminanti siano ammessi solo se allevati su pascoli e con il foraggio derivato da prati stabili, visto che non sono in concorrenza con la produzione di cibo e che prati e pascoli possono fungere da “carbon sink” (depositi di carbonio). Nel nostro Paese tra un terzo e metà della PLV (Produzione Lorda Vendibile) del settore agricolo è legata alle produzioni animali.

Il settore zootecnico e quelli collegati (allevamenti, mangimi, macellazione, trasformazione, distribuzione) insorgerebbero. Ed è prevedibile la lista delle contromisure:

  • Allarme per i posti di lavoro a rischio.
  • Pericolo per le nostre esportazioni alimentari (in particolare i due prosciutti e i due formaggi che sono la bandiera del nostro Made in Italy).
  • Critiche ai fondamenti scientifici della “Great Food Transformation” instillando dubbi sulla competenza degli esperti, sui metodi impiegati, sulle fonti dei dati, su interessi reconditi.
  • Richiesta di avviare nuove (e possibilmente lunghe) ricerche per verificare le conclusioni.
  • Richiesta di consultazione preventiva di comitati di stakeholders prima dell’adozione di qualunque decisione operativa.
  • Finanziamento di campagne di controinformazione sui media e nei social network.
  • Invocazione della libertà individuale in tema di alimentazione.
  • Dimostrazioni di piazza, blocchi di strade, ecc. come avvenne durante il periodo delle “quote latte”.

Alla fine, quale gruppo politico si imbarcherebbe in una campagna di sostegno della “Great Food Transformation” così rischiosa? Chi vorrebbe che la collettività (con le tasse) si facesse carico di compensare allevatori e industriali per una parte almeno degli introiti perduti? Chi, in Italia (!) vorrebbe decidere come i cittadini debbano mangiare? La libertà individuale (anche quella di farsi del male con diete inadeguate) da noi è sacra quando si tratta di cibo.

I politici sono troppo condizionati da una visione di breve periodo (le prossime elezioni) per rischiare di imbarcarsi in campagne impopolari, anche se per la soluzione di ben più gravi problemi che certamente si presenteranno qualche anno dopo (declino della salute pubblica, collasso del clima).

Eppure la EAT-Lancet Commission pone la costruzione di una “volontà politica” alla base di qualsiasi iniziativa che voglia sperare di avere successo. Temo che, se questa sia la condizione necessaria, ovvero una volontà dei governi, aspetteremo molto a lungo.

Unica prospettiva pacifica che riesco ad intravvedere è una rivoluzione dal basso. Una presa di coscienza della generalità delle persone di questo mondo che cambiare comportamenti convenga a tutti noi, per il nostro benessere di oggi (salute) e di domani (clima). In particolare, credo che il movimento degli adolescenti coalizzati intorno a Greta Thunberg negli scioperi per il clima possa rappresentare la vera speranza, sempre che riesca a mantenere la direzione senza sbandamenti.

Dal basso può emergere una rivoluzione delle coscienze che porti ad una rivoluzione dei comportamenti dei consumatori. Se i vegani, vegetariani, pescatariani, flexitariani saranno considerati modelli da imitare anziché, come spesso accade oggi, da compatire o deridere o da stigmatizzare come posizioni di fanatici, allora sì, il settore delle produzioni animali si sgonfierebbe per carenza di domanda e non ci sarebbe bisogno di politici coraggiosi, in grado di resistere alle lobby e al rischio di impopolarità.

L’unica alternativa che vedo non è per nulla desiderabile né pacifica. La causa di un cambiamento radicale dei consumi potrebbe infatti essere un terzo conflitto globale; in realtà non sarebbe necessario che il Paese fosse impegnato direttamente in conflitti. Non sarebbero necessari bombardamenti, distruzioni, stragi di civili. Basterebbe un’interruzione o un forte rallentamento dei commerci internazionali ed anche in Paesi come l’Italia si porrebbe il problema se produrre mangimi per alimentare gli animali, in sostituzione delle attuali massicce importazioni, o utilizzare le terre per produrre alimenti per l’uomo.

Se venissero meno le importazioni di cereali dal Nord-America, di oleaginose dal Sud-America, o anche di grano dall’Ucraina, inevitabilmente lo sviluppo di un’agricoltura “autarchica” avvicinerebbe le diete degli italiani a quella universale proposta dalla EAT-Lancet Commission.

Se proprio dovessi scommettere, con un bel po’ di pessimismo, scommetterei sulla seconda ipotesi.

Stefano BISOFFI

Articolo liberamente riproducibile purché si indichino l’Autore e il link da cui è tratto.