E’ chiaro a tutti che viviamo in un mondo sempre più complesso, in cui le componenti che interagiscono tra loro sono sempre più numerose e sono parti di reti di relazioni sempre più vaste e ramificate. Ma siamo attrezzati per gestirla? Chi non ha mai sentito citare “approccio olistico”, “gestione della complessità”, “transdisciplinarità”?
Nella gestione della complessità io vedo tre questioni principali:
- Come facciamo a comprenderla e a dominarla? Come facciamo ad orientarci in reti che sembrano labirinti nei quali entriamo senza una mappa? Possiamo affidarci alla tecnologia; ad esempio all’intelligenza artificiale?
- Come facciamo a far sì che la complessità porti stabilità, come negli ecosistemi naturali, invece che instabilità e caos?
- Come ci attrezziamo “culturalmente” per migliorare la nostra capacità di capire e gestire sistemi complessi?
In questa prima parte provo ad affrontare la prima questione, la più ardua.
La mente umana non è predisposta per gestire la complessità. L’uomo cerca regole, punti di riferimento per orientarsi, componenti principali. La mente dell’uomo crea una mappa semplificata della realtà che gli consente di navigare a vista.
Non che l’uomo neghi la complessità del mondo reale; semplicemente ragiona su un piccolo sottoinsieme delle sue componenti e soprattutto delle possibili interazioni tra queste. Perché altrimenti è perso.
Dalla ricerca agraria voglio trarre un esempio: quello degli esperimenti “fattoriali”. Ad esempio, se si vogliono valutare gli effetti di diversi livelli di combinazioni di fertilizzazione azotata (N), di potassio (K) e di fosforo (P) con diversi livelli di irrigazione (I), diverse profondità di lavorazione del terreno (L) e così via, per l’influenza che essi esercitano sulla produzione di una coltura (es. mais), la modalità tipica è di definire vari livelli (dosi) di applicazione di ciascun fattore (supponiamo tre) e applicare ad uno o più appezzamenti (parcelle) ogni combinazione di livelli di ciascun fattore. Nel caso in esame le combinazioni sarebbero 3(N) x 3(K) x 3(P) x 3(I) x 3 (L) = 243. Ma a parte la complessità di realizzazione (la programmazione statistica degli esperimenti consente alcune semplificazioni), è l’interpretazione dei dati che pone grossi problemi.
Possiamo stimare statisticamente l’effetto “principale” di ciascun fattore. Ad esempio, l’effetto delle diverse dosi di N quando applicate ad un insieme di tutte le combinazioni degli altri fattori e livelli: potremmo ad esempio trovare che all’aumentare della dose aumenta la produzione. E così per gli altri fattori.
Ma poi ci sono le “interazioni”. Ad es. NxK: qual è l’effetto delle dosi di N applicate a parcelle che hanno ricevuto diversi livelli di K (e un insieme di tutte le combinazioni di livelli di P, I, L)? Potrebbe esserci una risposta diversa all’azoto in funzione del livello di K che può orientarci verso una combinazione ottimale dei due elementi.
E le interazioni più complesse? NxKxP. Qual è l’effetto di differenti livelli di P quando applicato a ciascuna combinazione di NxP (9) ma con un insieme di tutti i livelli di I e L?
E le interazioni NxKxPxI? E NxKxPxIxL? Statisticamente possiamo stabilire se siano “significative” (ovvero, probabilisticamente parlando, non imputabili al caso); ma nella pratica come le interpretiamo? Quale indicazione pratica trarne? Molto difficile. Non per nulla gli agronomi considerano interessanti gli effetti principali e le interazioni a due fattori; poco quelle superiori: perché non si capisce bene come vadano interpretate e quindi non sono molto utili nella pratica.
Nell’esempio appena fatto, oltretutto, stiamo parlando di una realtà semplificata, costruita dall’uomo secondo uno schema definito. Immaginiamo la difficoltà di interpretare relazioni complesse in sistemi naturali, semplicemente con la misura e l’osservazione.
O più ancora in sistemi sociali o economici, nei quali magari l’osservatore interferisce con il fenomeno.
Una risposta possibile è affidarsi alla tecnologia informatica, alle capacità dei computer di elaborare enormi quantità di dati in poco tempo e senza errori.
Per molti fenomeni già ci si affida totalmente alla tecnologia nella gestione di sistemi complessi. La gestione del traffico aereo, la rete di distribuzione dell’energia elettrica, le transazioni bancarie, le previsioni meteorologiche non sarebbero possibili se non si fossero sviluppati sistemi automatici che hanno sostituito l’uomo e che rispetto all’uomo sono molto più affidabili e veloci.
Anche i modelli matematici applicati all’analisi di fenomeni naturali (clima), o legati alle attività dell’uomo (produzioni agricole) o alle grandezze economiche e finanziarie sono sempre più sofisticati ed efficaci, anche se, dal punto di vista logico, si basano sempre su una semplificazione della realtà, sulla riduzione della complessità ad un modello interpretativo..
Ma come scrisse George P.E. Box “All models are wrong, but some models are useful”. Sbagliati perché sono sempre approssimazioni e mai rappresentazioni esatte della realtà; utili perché un’approssimazione è sempre meglio che navigare nel buio.
Credo che nessuno dubiti dell’utilità di modelli e algoritmi per l’interpretazione e la gestione di sistemi fisici o magari biologici.
Ma altrettanto, se non più complessi, sono i fenomeni sociali e politici, che pure sono fondamentali nelle società moderne.
Le relazioni tra tipi, tempi e modalità del lavoro e paghe, tra lavoro e disoccupazione, tra capitale, lavoro, consumi, tasse e servizi, tra politica e amministrazione, tra famiglia, scuola e ambiente sociale nell’educazione, tra redditi, stili di vita, diete, salute e spesa sanitaria, tra integrazione e respingimento di migranti, … sono anch’esse complesse e potrebbero essere analizzate con modelli logici e matematici, alla ricerca di combinazioni ottimali o quantomeno soddisfacenti, o per prevedere, e quindi poter evitare, collassi e catastrofi.
Ma chi accetterebbe di affidare ad un modello matematico le decisioni su aspetti che, correttamente, riteniamo “politici”? In democrazia non importa che le opinioni siano giuste o sbagliate (o, probabilisticamente parlando, più giuste che sbagliate o viceversa). Ognuno ha diritto di scegliersi i rappresentanti che ritiene più adatti a difendere quelle opinioni, giuste o sbagliate che siano, perlomeno in una “democrazia rappresentativa”; o magari di difenderle e diffonderle in prima persona, come adesso sembra possibile (illusione?), con i mezzi di interazione sociale tramite Internet, in un’ipotesi (illusione?) di “democrazia diretta”.
Il fatto che ognuno di noi abbia una visione limitata delle cose, che sia condizionato dai propri interessi nella scelta di cosa ritenere giusto o sbagliato, o che semplicemente affronti le questioni politiche come il tifo nel calcio, per senso di appartenenza più che per una valutazione “oggettiva” della realtà, fa sì che la complessità venga affrontata in modo assai diverso da quanto si vorrebbe in teoria. Non c’è “approccio olistico”, ma solo una rappresentazione semplificata, interessata, preconcetta della realtà.
Credo che, al di là delle esortazioni ricorrenti ad affrontare la complessità con strumenti adeguati, dobbiamo rassegnarci a vivere in un mondo in cui decisioni che ci riguardano da vicino siano assunte “con la pancia” più che “con la testa”; perlomeno in una società che voglia definirsi democratica.
Forse sono condizionato, in questa mia valutazione, dalla deriva populista che ha preso il dibattito politico in anni recenti, non solo in Italia. Ma è questa la democrazia? David Brooks scrisse in un articolo pubblicato sul New York Times (1): “Democracy is not average people selecting average leaders. It is average people with the wisdom to select the best prepared”. E tra le caratteristiche di un buon leader politico, Brooks mette al primo posto la “prudenza” che definisce così: “It is the ability to grasp the unique pattern of a specific situation. It is the ability to absorb the vast flow of information and still discern the essential current of events — the things that go together and the things that will never go together. It is the ability to engage in complex deliberations and feel which arguments have the most weight”. Non è altro che la capacità di assumere decisioni avvedute in situazioni complesse.
Non resta che sperare in una democrazia in cui sia recuperata la capacità di scegliere come propri rappresentanti persone preparate e prudenti.
Stefano BISOFFI
(1) “Why Experience Matters”: https://www.nytimes.com/2008/09/16/opinion/16brooks.html), 15 settembre 2008.
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