Sviluppo sostenibile per tutti. Una chimera?

Premetto subito che quando parlo di “sviluppo” non intendo “crescita”. La crescita, soprattutto se misurata in termini economici, è strettamente correlata con lo sfruttamento delle risorse naturali e ambientali che è già insostenibile oggi e rischia di divenirlo ancor di più nei prossimi anni se proseguiranno i trend demografici ed economici attuali.

A livello mondiale si stanno consumando annualmente “1,7 pianeti” all’anno, ossia il 70% in più di quanto la terra potrebbe offrire senza depauperarsi. Globalmente stiamo vivendo al di sopra delle nostre possibilità. Stiamo erodendo il capitale invece che accontentarci degli interessi.

Stiamo oltrepassando quelli che Rockström (2009)[1] definì “planetary boundaries” (confini del pianeta). Ma allo stesso tempo non siamo in grado di garantire a tutti un livello di vita dignitoso: Kate Raworth (2017)[2] ha descritto come una ciambella (doughnut) uno spazio in cui siano soddisfatti vari indici di qualità della vita ma senza che ciò comporti un consumo di risorse oltre i confini sostenibili. Molti degli indici di qualità della vita si ritrovano nei “sustainable development goals” (obiettivi di sviluppo sostenibile) delle Nazioni Unite: cibo e acqua a sufficienza, accesso all’istruzione, parità di diritti per le donne, diritto alla salute, giustizia, lavoro, equità sociale, ecc.

Il problema è che anche buona parte di questi indici di sviluppo (non solo la crescita economica) sono correlati positivamente con il consumo di risorse, come ha messo in luce O’Neill (2018)[3] e quindi colmare i gap a livello sociale comporterebbe un aggravamento della situazione a livello climatico/ambientale.

Hickel (2019)[4] ha tentato un’analisi quantitativa, per quanto ardua con dati del genere, ed è giunto alla conclusione che uno “spazio giusto e sicuro” (“safe and just space”), ovvero all’interno della ciambella di Kate Raworth, è possibile solo se i Paesi ricchi caleranno i propri consumi. Attenzione: non “se eviteranno di crescere” ma se attueranno una “decrescita” (torna in mente la “décroissance sereine” di Serge Latouche).

Noi dei Paesi ricchi non dovremo essere più efficienti; dovremo proprio calare i consumi: meno viaggi, meno energia, meno rinnovo del guardaroba, case più piccole, cibi di stagione. Più sobrietà.

Ma questo succederà? Io sono molto pessimista. Per farlo occorrerebbe la consapevolezza “globale” della “globalità” del problema e della necessità di soluzioni “globali”. Ma il mondo sta oggi andando proprio nella direzione opposta, con un risorgere di nazionalismi, di difesa dei confini, di salvaguardia degli interessi particolari. Questo modo di pensare è stato espresso a parole nella maniera più sfrontata da Trump nel suo discorso del 24 settembre alle Nazioni Unite[5] che vi invito ad ascoltare. Ma anche piccoli politici nostrani che teorizzano il “prima gli italiani” sono fatti della stessa pasta; o Bolsonaro che tratta l’Amazzonia come un bene di esclusiva pertinenza del Brasile.

Eppure la correlazione tra “benessere” o “qualità della vita” o “felicità” e Prodotto Interno Lordo (PIL), indice imperfetto di crescita economica, e ancora più inutile come misura di sviluppo sociale ma ancora feticcio di larga parte dei politici e degli economisti, è molto debole. La “sensazione di benessere” non deriva tanto da elementi oggettivi ma dal confronto con l’ambiente circostante, dalle diseguaglianze che si percepiscono, dall’abitudine all’ambiente che ci circonda. Se tutti abbiamo di più non diventiamo più felici. Ma se dovremo rinunciare a qualcosa allora nasceranno insoddisfazione, risentimento, frustrazione.

Per questo sono parecchio scettico sulle possibilità di noi “ricchi” della terra di rinunciare al nostro cosiddetto benessere, anche se magari, razionalmente, saremo persuasi del fatto di vivere al di sopra delle possibilità del pianeta e che i nostri stili di vita da un lato freneranno lo sviluppo dei “poveri” della terra e dall’altro spingeranno tutti, “ricchi” e “poveri” a sbattere contro il muro di un clima fuori controllo.

Non sarà la fine del mondo; ci sono già state epoche geologiche finite (es. l’era dei dinosauri) e altre cominciate. La vita continuerà e forse anche l’homo sapiens; ma non la civiltà come noi la conosciamo.

Stefano BISOFFI

Articolo liberamente riproducibile purché si indichino l’Autore e il link da cui è tratto.

[1] Rockström J et al. 2009. A safe operating space for humanity. Nature 461, 472–475.

[2] Raworth K. 2017. Doughnut Economics. Seven ways to Think Like a 21st -Century Economist. Random House Business Books. London.

[3] O’Neill DW et al. 2018. A good life for all within planetary boundaries. Nature Sustainability, 88, 1, 88–95.

[4] Hickel J. 2019. Is it possible to achieve a good life for all within planetary boundaries? Third World Quarterly, 40, 1, 18-35.

[5] “The free world must embrace its national foundations. It must not attempt to erase them or replace them. The future does not belong to globalists, the future belongs to patriots.” https://www.reuters.com/article/us-un-assembly-trump-globalism/trump-calls-on-nations-to-reject-globalism-embrace-nationalism-idUSKBN1W91XP.