Tipping point potrebbe essere tradotto (dall’inglese) come “punto di non ritorno”. Nel caso dei cambiamenti climatici esso significa una soglia di temperatura oltre la quale il riscaldamento continuerebbe a valanga, in modo irreversibile, senza alcuna possibilità per l’umanità di fermarlo o di invertire la rotta.
Nessuno sa di preciso quale sia questa soglia; gli obiettivi che l’accordo di Parigi del 2015 si prefiggeva erano dettati più da buon senso e da buone intenzioni che da dati scientifici certi. L’accordo prevedeva che ogni Paese mettesse in atto tutte le misure necessarie per contenere il riscaldamento globale entro i 2°C rispetto al periodo preindustriale, possibilmente entro 1,5°C. Ma qual è la ragione di questi valori? In parte pragmatismo: siamo già a +1°C, con un trend in aumento; dire che ormai non c’è più nulla da fare significa lavare le coscienze: se ogni sacrificio per salvare il clima è inutile, che senso ha impegnarsi? Quindi: 2°C, meglio se 1,5°C. Così si dà il senso di un certo margine di manovra, seppure stretto, anzi, secondo i più recenti rapporti dei ricercatori, strettissimo.
Un problema sottovalutato nel dibattito generale sul clima è che i cambiamenti indotti da un aumento della temperatura non agiscano in modo indipendente ed additivo ma rinforzandosi a vicenda. Steffen et al. (2018)[1] espongono molto chiaramente il rischio che si inneschino una serie di feedback positivi che facciano raggiungere più rapidamente di quanto si pensi un punto di non ritorno, nonostante interventi (ahimè tardivi) di ridurre le emissioni di gas ad effetto serra.
Un paio di esempi:
- I ghiacci già si sciolgono per effetto della temperatura attuale: una superficie bianca, che riflette la luce del sole viene rimpiazzata da una superficie scura (terra o oceani) che si scalda di più: più ghiaccio si scioglie per effetto del calore più il riscaldamento accelera.
- Nelle zone artiche (Russia, Canada) il riscaldamento porta allo scioglimento del permafrost, il terreno che è permanentemente ghiacciato al disotto di uno strato sottile che si sgela d’estate. I terreni a permafrost sono estremamente ricchi di sostanza organica che, sciogliendosi, si ossida emettendo CO2 o si decompone anaerobicamente emettendo metano (CH4), entrambi gas ad effetto serra; il secondo quasi trenta volte più potente del primo. Più aumenta la temperatura, più si scioglie il permafrost, più aumentano le emissioni di gas ad effetto serra che fanno ulteriormente crescere la temperatura.
- Nel mare è disciolta, sotto forma di acido carbonico, molta CO2 che altrimenti sarebbe in atmosfera. Ma l’equilibrio chimico è influenzato dalla temperatura: più questa si alza e più CO2 passa dall’acqua all’atmosfera contribuendo ulteriormente all’effetto serra.
Già lo scorso anno l’IPCC aveva pubblicato un rapporto[2] sui livelli di emissioni nette che consentirebbero di restare entro +1,5°C: azzeramento entro il 2055. Obiettivo possibile? Forse sì; concretamente attuabile nell’attuale frammentazione del panorama internazionale, in cui ogni Paese sembra voler andare per la sua strada e addirittura gli Stati Uniti rinnegano l’accordo di Parigi? Difficile. Qualche segnale incoraggiante viene dalle dichiarazioni del nuovo Presidente della Commissione Europea (emissioni nette pari a zero entro il 2050) e da analoghi o ancor più stringenti impegni assunti da Paesi quali il Regno Unito e la Germania, ma sono poche e probabilità che si raggiunga un’unità d’intenti e d’azione a livello mondiale, anche perché a dover compiere i sacrifici maggiori sono i Paesi ricchi.
Il primo passo dovrebbe essere eliminare ogni incentivo economico o fiscale a settori o attività economiche che aggravano i cambiamenti climatici; ma già in Italia si è visto che anche solo ventilare una riduzione dei benefici fiscali per l’autotrasporto (restituzione delle accise sul gasolio) o per l’agricoltura (gasolio a prezzo agevolato) suscita immediate reazioni difensive delle categorie colpite, tali da spaventare qualsiasi politico, anche se ben intenzionato.
Stefano BISOFFI
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