Sopravviveremo alla complessità? (terza parte)

Nelle prime due parti di questa breve serie dedicata alla complessità ho cercato di riflettere su due aspetti: come orientarsi in sistemi complessi (https://www.bisoffi.it/2018/11/21/sopravviveremo-alla-complessita-prima-parte/) e come far sì che la complessità generi stabilità invece che caos (https://www.bisoffi.it/2018/12/24/sopravviveremo-alla-complessita-seconda-parte/).

In questa terza parte voglio formulare alcune proposte su come prepararci culturalmente a capire realtà complesse e navigarvi senza perdere l’orientamento. Non sono né uno psicologo né un filosofo e pertanto prendete queste considerazioni come ragionamenti ispirati da buon senso (spero).

La prima idea è che l’istruzione dovrebbe preparare meglio di come faccia ora a comprendere i contesti. Mi spiego. Adesso succede (esagero un po’) che uno studente studi in parallelo gli autori greci classici, la storia medievale, la filosofia dell’illuminismo, l’arte del rinascimento e la letteratura del periodo crepuscolare. Ogni settore è affrontato come se fosse un contenitore chiuso, come se tra letteratura, arte, filosofia, storia, musica di un determinato periodo non ci fossero relazioni strettissime che, se emergessero, farebbero comprendere i diversi contesti storici e culturali in maniera assai più efficace che con un approccio per pezzi discronici.

Ho fatto un esempio tratto dalle discipline umanistiche, ma anche tra materie scientifiche ci sono legami che spesso si comprendono troppo tardi e solo per chi svolge studi avanzati di matematica, statistica, fisica, astronomia, chimica, biologia. Come si può “capire” la fisica senza una buona base matematica?

Capisco che i programmi scolastici siano difficili da confezionare ma uno sforzo per raccordare le materie aiuterebbe a sviluppare gli strumenti mentali e culturali per scoprire le interrelazioni tra elementi di sistemi complessi anche al di fuori dell’ambito scolastico.

Un’altra proposta, che per la verità sta trovando spazio nella scuola grazie soprattutto a insegnanti intelligenti, è di affrontare problemi e realizzare progetti in modo non solo interdisciplinare ma anche transdisciplinare. Un progetto di trasformazione di un’azienda agricola (esempio molto parziale e specifico) non è mai solo tecnico o biologico ma anche economico, sociale, di marketing.

Ricordo un viaggio di studio che feci trent’anni fa nella provincia cinese dello Shandong, in una Cina rurale molto, molto diversa da quella di oggi; nelle campagne coltivavano pioppi in piantagioni fitte per produrre pali che servivano a sostenere i tetti delle case dei villaggi; ebbene, un ricercatore del nord-Europa disse ai colleghi cinesi che avrebbero dovuto piantare i pioppi a distanza di nove metri l’uno dall’altro perché così il volume di legno prodotto sarebbe stato massimizzato; evidentemente aveva in mente la destinazione industriale del legno nel suo Paese e non aveva capito che nello spazio necessario per coltivare una pianta alle spaziature da lui consigliate, i contadini cinesi avrebbero ricavato in 3-4 anni oltre cinquanta pali. Senza contare che un contadino cinese aveva a disposizione, allora,  non più di due “mu” (1 mu = 1/15 di ettaro) e non avrebbe potuto campare piantando solo una quindicina di piante come suggeriva lo scienziato. A queste assurdità può portare una considerazione puramente tecnica non inserita nel contesto socio-economico reale.

Un terzo contributo potrebbe venire dall’abitudine al dialogo, anche questo da coltivare soprattutto in ambito scolastico ma anche lavorativo. Il dialogo è cosa ben diversa dalla discussione in cui si cerca di far prevalere il proprio punto di vista, la propria tesi, talora i propri pregiudizi. Il vero dialogo parte dalla convinzione che il proprio punto di vista non sia sempre e necessariamente l’unico ammissibile, che possano esistere ragioni che non siamo stati in grado di vedere da soli, che la verità possa stare anche altrove; il dialogo è una ricerca reciproca, una scoperta, un’esplorazione, un arricchimento della realtà.

Un altro suggerimento è imparare (ancora idealmente a scuola) ad utilizzare schemi grafici per illustrare le relazioni tra componenti dei sistemi, a sfruttare meglio l’intelligenza visiva. Provate a guardare la figura che accompagna questo articolo: illustra un generico sistema di controllo. A mio parere (ma sono particolarmente affezionato agli schemi grafici) si capisce al volo la logica che lo sottende.

Adesso provate a descriverlo a parole …

Stefano BISOFFI

Articolo liberamente riproducibile purché si indichino l’Autore e il link da cui è tratto.

Fermeremo la deriva climatica o è ormai una missione impossibile?

I Paesi che avevano partecipato alla conferenza sul clima di Parigi COP 21 del 2015 avevano concordato che, con iniziative definite in modo autonomo ciascuno, si dovesse contenere l’aumento di temperatura media mondiale rispetto all’epoca preindustriale entro i +2°C, possibilmente entro +1,5°C. Teniamo conto che già siamo arrivati a +1°C e si stanno sciogliendo i ghiacci ai poli (oltre a molti altri effetti negativi); e quindi, a +1,5°C o a +2°C, la situazione del clima sarà comunque inevitabilmente peggiore di quella attuale.

L’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) ha pubblicato a ottobre 2108 un rapporto sulle iniziative che l’umanità dovrebbe adottare per rimanere entro +1,5°C (https://www.ipcc.ch/site/assets/uploads/sites/2/2018/07/SR15_SPM_version_stand_alone_LR.pdf). Nel rapporto c’è il grafico riprodotto in testa all’articolo che rappresenta l’andamento che le emissioni di gas ad effetto serra (GHG) dovrebbe avere d’ora in poi per avere buone probabilità (non la certezza!) di raggiungere l’obiettivo.

Il grafico rappresenta i flussi, non gli stock. Ossia per ogni anno sono indicate le nuove emissioni di GHG che vanno ad aggiungersi a quelli già presenti in atmosfera. Come si vede, fino ad oggi, anno dopo anno, abbiamo immesso in atmosfera quantità sempre crescenti di GHG. La retta che precipita per arrivare a zero circa nel 2055 indica che da adesso in avanti, anno dopo anno, dovremmo ridurre drasticamente i flussi di GHG in atmosfera per azzerarli nel 2055.

Quale combinazione realistica di circostanze potrà far sì che l’obiettivo di emissioni zero nel 2055 si verifichi? La “Great Food Transformation” auspicata dalla EAT-Lancet Commission (https://hubs.ly/H0gcxY90) consentirebbe forse ai sistemi alimentari di apportare il loro rilevante contributo, ma gli ostacoli alla sua realizzazione sono enormi.

In ogni caso non basterebbe. Altri cambiamenti radicali sarebbero necessari in tempi rapidi.

Nei trasporti, ad esempio. I motori a combustione sono ancora dominanti; l’industria dell’auto è ancora considerata il termometro dell’economia; e comunque, anche se si optasse per l’elettrico, l’energia elettrica dovrebbe essere prodotta da qualche parte; e nella produzione di energia elettrica potrà aumentare la quota di rinnovabili (solare ed eolico in particolare) ma non da un anno all’altro; si potrà ridurre il carbone ma, per il momento, non si potrà fare a meno di petrolio e gas. Ma è soprattutto il continuo crescere dei volumi dei trasporti a vanificare ogni incremento di efficienza dei motori.

C’è inoltre un lag-time dato dalla vita utile dei mezzi di trasporto. Un aereo costruito oggi consumerà jet fuel (simile a kerosene) per trent’anni; un camion, gasolio per vent’anni. Si innesca quello che in inglese si definisce path dependency ovvero un condizionamento del futuro da scelte prese nel passato.

Il riscaldamento degli edifici è ancora basato largamente su gasolio, metano e GPL. Ogni cambiamento richiede tempo e investimenti.

Ci sono poi attività industriali (es. siderurgia, cementifici) nelle quali sono richieste grandi quantità di energia “puntuale” che al momento solo la combustione riesce a fornire.

Le transizioni necessarie sono costose non solo in termini economici, per gli investimenti che richiedono, ma anche in termini sociali e individuali di cambiamento di abitudini, stili di vita, distribuzione delle risorse tra Paesi e riduzione delle diseguaglianze. Come per la “Great Food Transformation” (v. articolo su “Clima e abitudini alimentari”, https://www.bisoffi.it/2019/03/03/clima-e-abitudini-alimentari/), quale governo democratico, dovendo dipendere da una maggioranza dei consensi e con frequenti elezioni, affronterebbe i rischi di una transizione drastica, inevitabilmente impopolare?

Vale oltretutto la “tragedia dei beni comuni” (tragedy of the commons), seppure al contrario. “Perché dovrei accollarmi un sacrificio per me oneroso se questo si traduce in un vantaggio infinitesimale per tutti? Chi me lo fa fare? O ci si mette tutti insieme o niente”. E siccome metterci tutti insieme è un’utopia, visto il risorgere di spiriti nazionalistici e il deteriorarsi dei sistemi multilaterali, non se ne farà nulla e si andrà a sbattere contro il muro.

Stefano BISOFFI

Articolo liberamente riproducibile purché si indichino l’Autore e il link da cui è tratto.

Clima e abitudini alimentari

La Commissione EAT-Lancet ha pubblicato a gennaio 2019 un rapporto che pone in relazione le abitudini alimentari e i cambiamenti climatici (https://hubs.ly/H0gcxY90). Il messaggio è chiaro: mangiare meno carne e più vegetali fa bene alla salute e può salvare il pianeta. Non si tratta di cambiamenti da poco: secondo il rapporto si dovrebbe ridurre ad un terzo il consumo di carne (specialmente di carni rosse) e raddoppiare frutta e verdura; le proteine di origine vegetale dovrebbero compensare il minore apporto di proteine animali.

La commissione, composta da 37 scienziati ed esperti, propone una “dieta universale”, coerente con le esigenze della salute umana e del pianeta, da non intendersi come “menu” o “libro di ricette” ma come quantità appropriate delle diverse componenti dell’alimentazione; si tratta di una dieta che è compatibile con un ampio spettro di tradizioni e culture. Osservando questa dieta universale, si garantisce il rispetto di limiti ambientali da parte dei sistemi produttivi tali da limitare l’effetto dei cambiamenti climatici entro confini che la maggior parte degli scienziati considera realisticamente accettabili.

Ma come arrivare a questa “Great Food Transformation”? E soprattutto, come arrivarci nei tempi rapidissimi necessari per scongiurare gli effetti negativi del sistema attuale su clima e ambiente? E come arrivarci senza innescare conflitti epocali? Su questo, francamente, non sono ottimista; e cerco di spiegare perché.

Le misure vanno attuate in singoli Paesi, o magari in singole Regioni. Non esiste un’Autorità sovranazionale in grado di imporle. Non ci sono trattati internazionali legalmente vincolanti, come fu, caso quasi unico, il protocollo di Kyoto, seppure solo per una parte dei firmatari.

Né e prevedibile che meccanismi efficaci di governance multilaterale si rafforzino in futuro; anzi, è evidente che sistemi di governance globale stanno via via perdendo peso in conseguenza di un risorgente spirito nazionalistico in molte parti del mondo: USA, Brasile, Turchia, vari stati europei tra cui Italia, Polonia, Ungheria e, ovviamente, anche il Regno Unito.

Ma entriamo nei casi concreti. La riduzione drastica dei consumi di carne e di prodotti di origine animale. Immaginiamo un Paese, come l’Italia, in cui si voglia azzerare qualsiasi forma di allevamento intensivo, che i bovini e gli altri ruminanti siano ammessi solo se allevati su pascoli e con il foraggio derivato da prati stabili, visto che non sono in concorrenza con la produzione di cibo e che prati e pascoli possono fungere da “carbon sink” (depositi di carbonio). Nel nostro Paese tra un terzo e metà della PLV (Produzione Lorda Vendibile) del settore agricolo è legata alle produzioni animali.

Il settore zootecnico e quelli collegati (allevamenti, mangimi, macellazione, trasformazione, distribuzione) insorgerebbero. Ed è prevedibile la lista delle contromisure:

  • Allarme per i posti di lavoro a rischio.
  • Pericolo per le nostre esportazioni alimentari (in particolare i due prosciutti e i due formaggi che sono la bandiera del nostro Made in Italy).
  • Critiche ai fondamenti scientifici della “Great Food Transformation” instillando dubbi sulla competenza degli esperti, sui metodi impiegati, sulle fonti dei dati, su interessi reconditi.
  • Richiesta di avviare nuove (e possibilmente lunghe) ricerche per verificare le conclusioni.
  • Richiesta di consultazione preventiva di comitati di stakeholders prima dell’adozione di qualunque decisione operativa.
  • Finanziamento di campagne di controinformazione sui media e nei social network.
  • Invocazione della libertà individuale in tema di alimentazione.
  • Dimostrazioni di piazza, blocchi di strade, ecc. come avvenne durante il periodo delle “quote latte”.

Alla fine, quale gruppo politico si imbarcherebbe in una campagna di sostegno della “Great Food Transformation” così rischiosa? Chi vorrebbe che la collettività (con le tasse) si facesse carico di compensare allevatori e industriali per una parte almeno degli introiti perduti? Chi, in Italia (!) vorrebbe decidere come i cittadini debbano mangiare? La libertà individuale (anche quella di farsi del male con diete inadeguate) da noi è sacra quando si tratta di cibo.

I politici sono troppo condizionati da una visione di breve periodo (le prossime elezioni) per rischiare di imbarcarsi in campagne impopolari, anche se per la soluzione di ben più gravi problemi che certamente si presenteranno qualche anno dopo (declino della salute pubblica, collasso del clima).

Eppure la EAT-Lancet Commission pone la costruzione di una “volontà politica” alla base di qualsiasi iniziativa che voglia sperare di avere successo. Temo che, se questa sia la condizione necessaria, ovvero una volontà dei governi, aspetteremo molto a lungo.

Unica prospettiva pacifica che riesco ad intravvedere è una rivoluzione dal basso. Una presa di coscienza della generalità delle persone di questo mondo che cambiare comportamenti convenga a tutti noi, per il nostro benessere di oggi (salute) e di domani (clima). In particolare, credo che il movimento degli adolescenti coalizzati intorno a Greta Thunberg negli scioperi per il clima possa rappresentare la vera speranza, sempre che riesca a mantenere la direzione senza sbandamenti.

Dal basso può emergere una rivoluzione delle coscienze che porti ad una rivoluzione dei comportamenti dei consumatori. Se i vegani, vegetariani, pescatariani, flexitariani saranno considerati modelli da imitare anziché, come spesso accade oggi, da compatire o deridere o da stigmatizzare come posizioni di fanatici, allora sì, il settore delle produzioni animali si sgonfierebbe per carenza di domanda e non ci sarebbe bisogno di politici coraggiosi, in grado di resistere alle lobby e al rischio di impopolarità.

L’unica alternativa che vedo non è per nulla desiderabile né pacifica. La causa di un cambiamento radicale dei consumi potrebbe infatti essere un terzo conflitto globale; in realtà non sarebbe necessario che il Paese fosse impegnato direttamente in conflitti. Non sarebbero necessari bombardamenti, distruzioni, stragi di civili. Basterebbe un’interruzione o un forte rallentamento dei commerci internazionali ed anche in Paesi come l’Italia si porrebbe il problema se produrre mangimi per alimentare gli animali, in sostituzione delle attuali massicce importazioni, o utilizzare le terre per produrre alimenti per l’uomo.

Se venissero meno le importazioni di cereali dal Nord-America, di oleaginose dal Sud-America, o anche di grano dall’Ucraina, inevitabilmente lo sviluppo di un’agricoltura “autarchica” avvicinerebbe le diete degli italiani a quella universale proposta dalla EAT-Lancet Commission.

Se proprio dovessi scommettere, con un bel po’ di pessimismo, scommetterei sulla seconda ipotesi.

Stefano BISOFFI

Articolo liberamente riproducibile purché si indichino l’Autore e il link da cui è tratto.