Sopravviveremo alla complessità? (seconda parte)

Nella prima parte (https://www.bisoffi.it/2018/11/21/sopravviveremo-alla-complessita-prima-parte/) avevo scritto che le principali questioni da affrontare nella gestione della complessità sono:

  1. Come facciamo a comprenderla e a dominarla? Come facciamo ad orientarci in reti che sembrano labirinti nei quali entriamo senza una mappa? Possiamo affidarci alla tecnologia; ad esempio all’intelligenza artificiale?
  2. Come facciamo a far sì che la complessità porti stabilità, come negli ecosistemi naturali, invece che instabilità e caos?
  3. Come ci attrezziamo “culturalmente” per migliorare la nostra capacità di capire e gestire sistemi complessi?

… e avevo tentato di dare una risposta alla prima domanda. In questa seconda parte provo ad affrontare la seconda.

Molti sistemi dinamici complessi, anche se scomponibili in parti dal comportamento prevedibile, diventano imprevedibili quando gli elementi sono combinati insieme. Si usa dire (facendo seguito a Edward Lorenz, 1972) che, per una serie di reazioni a catena di cui non saremmo in grado di prevedere sequenza e collegamenti delle varie fasi, “un battito d’ali di una farfalla in Brasile sia in grado di scatenare un uragano nel Texas”.

Scrisse Roland Kupers (per il World Economic Forum): “In un mondo profondamente interconnesso le tensioni e gli shock si propagano attraverso i sistemi in modi non prevedibili. Il cambiamento climatico è connesso alla guerra di Siria, che è connessa a crescenti timori riguardo alle immigrazioni, che hanno influito sulla Brexit”.

Secondo la teoria del caos, in un sistema dinamico complesso, in cui molti elementi interagiscono tra loro in modo non lineare, una variazione anche minima delle condizioni iniziali può produrre risultati radicalmente differenti e imprevedibili.

Un esempio chiarirà il concetto: guardate la figura in alto. A sinistra c’è un pendolo semplice; a partire da Galileo possiamo prevedere con esattezza in quale posizione si troverà il pendolo dopo un certo lasso di tempo. A destra c’è un pendolo composto; alla base del primo pendolo ne è appeso un secondo; se noi lo lasciamo cadere da un certo punto non siamo più in grado di prevedere dove l’estremità del secondo pendolo si troverà dopo pochissime oscillazioni.

Nella natura vivente, però, sembra accadere il contrario: in un ecosistema naturale possono convivere migliaia di specie animali, vegetali, fungine, batteriche in un equilibrio apparentemente stabile; la resistenza alle alterazioni di tale equilibrio sembra crescere al crescere del numero degli elementi nel sistema.

Cosa possiamo imparare dagli ecosistemi per difendere i sistemi sociali complessi dal caos dei sistemi dinamici complessi? Molte cose.

La prima è la vicarianza: in natura un posto vuoto viene occupato da un concorrente con esigenze simili. La seconda è la predominanza di “anelli di retroazione negativi” (negative feedback loops). La terza è l’esistenza di reti di relazione, non catene.

Per la vicarianza occorre che non ci siano soggetti dominanti ma molti potenzialmente intercambiabili. Piccolo è bello si diceva tempo fa. Ma in un ecosistema non è bello essere piccoli a livello individuale; è bello essere piccoli a livello collettivo. Chi è piccolo semplicemente può essere sostituito se muore o fallisce.

Gli anelli di retroazione negativi fanno sì che ad una deviazione corrisponda una correzione di segno opposto. Se una specie animale si moltiplica oltre misura non troverà cibo sufficiente e calerà di numero per mortalità o perché diminuisce il tasso di riproduzione o ancora perché i suoi predatori troveranno più prede e ne ridurranno il numero, salvo poi trovarsi nella medesima situazione di eccesso di numerosità rispetto alla disponibilità di cibo.

Le relazioni negli ecosistemi sono tipicamente a rete. Gli elementi sono nodi della rete, non anelli di una catena. Se un legame diretto tra due nodi si interrompe si può arrivare dall’uno all’altro attraverso un percorso alternativo.

Vero è che le reti di per sé possono divenire anche propagatori di shock, soprattutto se si tratta di reti di livello mondiale. In antichità una carestia poteva essere drammatica per la popolazione che ne era colpita. Ora il commercio può compensare attraverso la rete mondiale degli scambi ma la rete del commercio internazionale può anche amplificare invece che moderare i fattori di disturbo, come insegna la crisi dei prezzi delle principali derrate alimentari tra 2007 e 2008.

In tutti i casi, vicarianza, anelli di retroazione e reti, l’equilibrio è sempre dinamico, mai statico. Ad un nuovo equilibrio si giunge dopo aggiustamenti; non viene mantenuto indefinitamente uno stato costante.

Tradotto in termini sociali, ciò significa che l’equilibrio della società si mantiene attraverso una serie continua di successi e fallimenti, di “winners and losers”, nessuno dei quali tale da alterare gli equilibri fondamentali. Non occorrono sistemi per prevenire successi e fallimenti ma reti di protezione per ridurre gli effetti negativi di questi ultimi per chi ne è vittima.

Sistemi in grado di ritornare all’equilibrio dopo uno shock sono definiti “resilienti”. Dagli ecosistemi, tipicamente resilienti, dovremmo apprendere a realizzare sistemi caratterizzati da ridondanza, modularità, diversità, presenza di buffer, creazione di riserve.

Certo, ciò significa in certa misura sacrificare l’efficienza, quella che deriva dalla specializzazione, dalle economie di scala, dalle dimensioni delle imprese, dai monopoli. Ogni soggetto, umano, sociale o economico che sia, deve essere una “funzione sostituibile”.

Si è sentita l’espressione too big to fail a proposito delle banche, quando gli Stati, compreso quello italiano, sono dovuti intervenire nel salvataggio di alcune sull’orlo del fallimento per evitare che, con effetto domino, le crisi si propagassero e si amplificassero. Purtroppo stiamo assistendo ad ulteriori concentrazioni che renderanno sempre più rischioso il sistema bancario. In natura quasi mai il crollo di un elemento dell’ecosistema determina il collasso generale.

Ma non è solo dalle banche che proviene il rischio delle concentrazioni. Anche nell’industria è un fenomeno diffuso e preoccupante. Per rimanere nel campo dell’agricoltura e dell’alimentazione, la produzione di sementi, fertilizzanti, pesticidi, diserbanti, macchine, il commercio delle “commodities”, le trasformazioni alimentari, la grande distribuzione stanno progressivamente concentrandosi in poche imprese multinazionali in modo tale da condizionare fortemente il mercato e le scelte degli agricoltori ad un’estremità della catena e dei consumatori dall’altra. Too big to feed e definito questo fenomeno da IPES-Food (International Panel of Experts on Sustainable Food Systems: www.ipes-food.org) e non è una situazione che possa far ben sperare sulla futura resilienza dei sistemi agroalimentari.

Per carità, poi ci sono anche eventi imprevedibili, per definizione rari ma con conseguenze importanti, quelli che Nassim Nicholas Taleb definì “Black swans”, ma è assai probabile che sistemi resilienti siano in grado di reagire rapidamente e con efficacia anche a turbamenti imprevisti.

Come accennato sopra dovremmo apprendere dalla natura a realizzare sistemi caratterizzati da ridondanza, modularità, diversità, presenza di buffer, creazione di riserve. Dobbiamo puntare a sistemi “soddisfacenti” sotto molteplici punti di vista, non “ottimali” per uno solo. Quanto radicale sia questo principio è dimostrato dal fatto che nonostante la resilienza sia obiettivo dichiarato palesemente a tutti i livelli, ben poco venga fatto per tradurlo in realtà.

Stefano BISOFFI

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