A quale logica deve ispirarsi la ricerca pubblica?

La ricerca pubblica utilizza risorse dei contribuenti ed è quindi naturale che si pretenda che essa sia utile, che valga i soldi che costa. In genere si usa dire che la ricerca deve avere un “impatto” concreto; ma la questione non è così semplice, perché tutto dipende da quali criteri si debbano adottare per valutare l’utilità, da chi debba trarre beneficio dai risultati e in che tempi gli effetti positivi si debbano manifestare.

Negli ultimi anni in Europa, con il 7° Programma Quadro della ricerca e ancor più con il suo successore Horizon 2020, ma anche a livello nazionale e regionale si è affermata l’idea che la ricerca debba innanzitutto avvantaggiare le imprese, perché queste creano ricchezza per il Paese, danno lavoro alle persone e sono quindi il motore del benessere. Non si parla più solo di finanziare la ricerca ma anche, ed ora forse principalmente, l’innovazione, ossia la traduzione dei risultati in prodotti o servizi resi disponibili sul mercato.

In realtà non è detto che gli interessi dell’impresa privata (e del capitale investito che essa intende far fruttare) coincidano con gli interessi della società. La famosa “mano invisibile” del libero mercato teorizzata da Adam Smith in “The Wealth of Nations” ha dimostrato molto chiaramente i propri limiti nel costruire un benessere diffuso e soprattutto distribuito in modo equo. Mi riferisco in particolare ad una crescente divaricazione fra la remunerazione del capitale rispetto al lavoro, alle frequenti esternalità negative dei processi produttivi, alla competizione impari tra le imprese più forti e le più deboli che produce sì vincitori ma anche molti sconfitti, alla capacità delle imprese di esercitare un’influenza sulla politica minando il dialogo democratico.

Analizziamo allora le diverse logiche possibili per definire quali siano i criteri che debbano guidare gli investimenti pubblici in ricerca:

  1. Ricerca per le imprese e con le imprese: come sopra accennato, questa è l’idea attualmente prevalente; le agende strategiche di ricerca sono dettate dall’industria, centrate sulle sue aspettative di innovazione e di crescita della capacità competitiva. Le imprese, soprattutto le grandi imprese, che spesso sono anche quelle con notevoli capacità di ricerca proprie, sommano così alle risorse finanziarie e alle competenze interne anche le risorse messe a disposizione dalle amministrazioni pubbliche, sia attraverso finanziamenti diretti che attraverso i finanziamenti concessi alle università e agli enti pubblici di ricerca (EPR).
  2. Un’altra possibile logica per la ricerca pubblica è di finanziare esclusivamente la ricerca “libera”: è detta anche ricerca di base, pura, fondamentale, ”curiosity driven” ed è finalizzata solo all’accrescimento delle conoscenze, senza considerazione per l’applicabilità dei risultati nella vita reale. Starà poi a chi sarà in grado di combinare i pezzi di conoscenza in qualcosa di applicabile di trarne i frutti. Molti strumenti di uso comune (es. i telefoni cellulari) utilizzano tecnologie di origine disparata e nate da ricerche di base (la trasmissione radio, il laser, i cristalli liquidi, …). Alla fine, con ogni probabilità, sarebbero sempre le imprese più forti economicamente e con le maggiori competenze tecnologiche a trarne i maggiori vantaggi, cui si aggiungerebbero start-up innovative, magari nate da costole delle università o degli EPR (spin-off). Una forte spinta alla ricerca di base è data dai programmi europei finanziati attraverso lo European Research Council.
  3. All’estremo opposto si colloca una situazione in cui l’intervento pubblico nella ricerca è minimo o addirittura assente, o magari limitato al finanziamento del “metabolismo basale” (stipendi del personale di ruolo, funzionamento) delle università e degli EPR o a parte di esso, obbligando le istituzioni a ricercare finanziamenti “sul mercato” per avviare programmi effettivi di ricerca. Ovviamente la ricerca sarebbe, ancor più che nel primo caso, fortemente plasmata sugli interessi dei finanziatori. Vale il detto inglese “who pays the piper calls the tune” (chi paga i suonatori sceglie la musica). Non è una situazione tanto remota, visto che in molti Paesi avanzati i finanziamenti pubblici per la ricerca sono drammaticamente in calo.
  4. Un approccio radicalmente diverso è quello che definisco reverse engineering: si potrebbe ipotizzare una “società ideale” nella quale prevalgano valori condivisi di solidarietà, eguaglianza, rispetto per l’ambiente, attenzione ai diritti e alle legittime aspettative delle generazioni future, un benessere (inteso letteralmente come ben essere) diffuso ma determinato più dalla qualità delle relazioni e dalle possibilità di sviluppo della personalità e delle capacità creative che dal consumo di risorse. Da questo modello ideale si dovrebbero derivare le esigenze di ricerca, ovvero indirizzare la ricerca verso quelle innovazioni tecnologiche e sociali che meglio possano condurvici. Si tratta di un’utopia, forse, ma perché rinunciare a porre i “valori” come criteri guida, anziché il mercato, la crescita economica, la competitività?
  5. Meno utopistica ma altrettanto orientata alla società nel suo insieme è una ricerca pubblica che tuteli prioritariamente gli interessi collettivi, spesso calpestati in una logica di mercato, soprattutto nella sua estremizzazione neo-liberista. La ricerca dovrebbe tutelare la salute pubblica (ad esempio verificando in modo indipendente le possibili conseguenze negative di nuovi materiali e di nuove tecnologie), dovrebbe favorire la conservazione e il miglioramento dei beni comuni: l’ambiente, le acque, il territorio, la biodiversità; tutti ambiti che non possono essere soggetti alla logica del mercato. Scrisse Karl Polany (The Great Transformation, 1944): Market-based mechanisms cannot be expected to provide solutions to societal and environmental challenges (Non ci si può aspettare che meccanismi basati sul mercato offrano soluzioni a sfide sociali e ambientali). La ricerca pubblica avrebbe quindi una funzione di garanzia del bene pubblico rispetto agli interessi privati.

Queste cinque categorie sono ovviamente caratterizzazioni estreme di logiche che possono in parte convivere. Nessuna rappresenta da sola una soluzione ideale o quantomeno soddisfacente. È però importante conservarle come schemi mentali nei dibattiti sulla ricerca e sulle sue priorità.

Va anche sfatato un mito: che la ricerca cosiddetta “applicata” sia sempre in grado di avere “impatti” concreti nell’arco di vita dei progetti di ricerca o anche in momenti immediatamente successivi. Uno studio molto interessante condotto qualche anno fa dall’INRA (Institut National de la Recherche Agronomique) analizzando retrospettivamente alcune innovazioni rilevanti in campo agricolo e tracciando i risultati della ricerca scientifica che li avevano resi possibili, aveva determinato in quasi vent’anni la distanza temporale tra risultati scientifici ed effetti tangibili. Ciò significa che quando in sede di predisposizione di progetti si insiste sull’impatto che avranno le ricerche, il più delle volte si tratta di affermazioni esageratamente ottimistiche e quindi di scarso valore.

Ritornando quindi alle parole iniziali, credo che si dovrebbe sostituire alla parola “impatto”, che tra l’altro evoca immagini poco positive, le parole “creazione di valore”: la ricerca deve “creare valore”. L’ambiguità in realtà permane anche sul concetto di valore, che è essenzialmente monetario in una logica di puro mercato, ma che è ben più elevato e nobile, anche se difficilmente misurabile, se nel “Valore” si comprendono quei fattori immateriali che danno un senso alla vita.

Spostare l’attenzione della ricerca dalle imprese alla società nel suo insieme avrebbe anche l’effetto di ricostruire intorno alla ricerca e ai ricercatori un consenso e una fiducia che attualmente è assai modesta.

Stefano BISOFFI

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